sabato 19 luglio 2025

Simulacro (un racconto)

Al limite del soffio, proprio lì, dove la voce si fa appena fiato e il fiato si perde in una piega del giorno, Mario attendeva. Non sapeva più da quanti anni. Il compleanno si avvicinava con la lentezza molle di certe condanne: non perché invecchiasse, ma perché ogni data era una trappola. Segnava non il tempo, ma ciò che mancava. I baci, per esempio. Le mani, anche quelle. Le parole che erano state dette una volta sola — o forse mai.

Nel suo appartamento al terzo piano, dove il frigo si apriva come una cattedrale stanca e il pane sapeva di rassegnazione, preparava ogni mattina la tavola per due. Non per abitudine, ma per un incantesimo. Forse tornando, avrebbe trovato il posto opposto occupato: da chi? Da quello che era stato amore, o da un altro? Nessuno lo sapeva, nemmeno lui.

Certe mattine, mentre tagliava una fetta, gli sembrava che il coltello tremasse come se ci fosse un terremoto dentro il polso. In quel tremore, tutta la sua preghiera: fa’ che oggi succeda. Ma non succedeva mai nulla, solo le briciole.

Quando usciva, il marciapiede si faceva oracolo. Ogni passo era una frase incerta. Camminava fino al fondo della strada, dove un tempo si erano baciati, proprio davanti al murale del cavallo a dondolo, che qualcuno aveva ridipinto come un unicorno. Lì si fermava. Chiudeva gli occhi. Respirava. Lo vedeva, lo sentiva, lo baciava. Ma era solo una visione.

Un simulacro.

Ogni giorno tornava a casa con le mani vuote e il cuore colmo di assenza. Ma non si arrendeva. La fola fissa del chissà era la sua religione, e la litania delle lacrime il suo rosario quotidiano. L’estasi era un crimine che continuava a compiere, ogni volta che ricordava. Ogni volta che sperava.