Propongo qui una mia versione interpretativa, fedele allo spirito e alla forza del linguaggio di Vladimir Majakovskij, di alcune delle sue poesie più celebri. Non una semplice traduzione, ma un adattamento poetico che ne conservi l'urgenza, la furia d'amore e di rivoluzione.
Prefazione: Un amore che spara ancora
C’è un punto del corpo in cui Vladimir Majakovskij spara sempre.
Non è il cuore. Non è la testa. Non è la tempia, anche se lì si è sparato davvero.
È il diaframma.
È da lì che sale l’urlo.
Un urlo impastato di amore e ideologia, sesso e disperazione, grandiosità infantile e disillusione vecchia prima dei trent’anni. Majakovskij non è solo un poeta russo della Rivoluzione. È un paradosso incarnato: l’uomo che ha cantato Lenin come un dio operaio e ha poi bestemmiato contro ogni piccola codardia di partito; l’amante che scriveva lettere alla sua Musa mentre metteva corna su corna alla borghesia con lo sguardo feroce del bambino ferito. Il suo romanticismo non si piega mai al sentimentalismo, e il suo materialismo non riesce mai a soffocare l’anima che urla: amate, accidenti a voi, amate fino a morire.
In questa raccolta – che non è un’antologia accademica, né un’imitazione – ho voluto prendere quel grido e tradurlo in una lingua contemporanea, tagliata, bruciante, consapevolmente spuria. Non ho voluto parafrasare i testi, ma reincarnarli. Come se Majakovskij tornasse oggi, sporco di fuliggine e inchiostro, con le mani piene di volantini e i denti stretti tra una sigaretta e una bestemmia. Le sue poesie diventano qui riscritture, invocazioni, proiettili risputati da un secolo che ha perso la fede ma conserva le ferite.
Perché Majakovskij non è un autore del passato. È un grido ancora attivo nella psiche collettiva. È l’urgenza dell’adolescente che ama troppo e male. È la voce dell’omosessuale che non può dichiararsi in una Mosca che gli ride in faccia. È il poeta che sa di non poter salvare nessuno, ma continua a scrivere come se fosse possibile. E soprattutto, è un innamorato dell’amore, proprio mentre l’amore lo lascia ogni volta solo come un cane. La sua tensione sentimentale è tragica e violenta, ma sempre limpida. Ogni sua poesia è un atto erotico e politico allo stesso tempo.
Queste pagine non vogliono essere una restituzione filologica, ma una forma di reincarnazione. Non si tratta di “capire Majakovskij”, ma di farsi colpire da lui, accoglierne l’oscenità tenera, il sarcasmo pieno di pianto, il desiderio titanico di significare qualcosa in un mondo che ci mastica e ci sputa. Le sue invettive contro la poesia di salotto, contro i benpensanti, contro i versi molli e i sentimenti borghesi, sono ancora oggi parole-armi, pronte a esplodere nelle mani di chi scrive e di chi legge.
C’è in lui un bisogno disperato di essere ascoltato, un bisogno che oggi potremmo chiamare narcisismo ferito, ma che in realtà è solo una fame d’amore vestita da ideologia. Non c’è nulla di più umano. Non c’è nulla di più nostro.
La sua poesia non si limita a dire: ti amo.
Dice: ti amo così tanto che ti distruggo.
Ti amo e mi faccio esplodere addosso, ti amo e non riesco a respirare, ti amo e non so dove finisco io e dove cominci tu.
E poi c’è il Majakovskij civile, il compagno, il costruttore. Ma anche lì, anche in quel contesto apparentemente più “progettuale”, la poesia resta un atto privato, carnale, pieno di nervi e sogni. Nessuna retorica: solo dolore lucido che prende la forma di un megafono.
La sua lingua è un esperanto della furia.
Ogni parola è spinta fino al limite, ogni rima è un coltello affilato, ogni immagine è un rovesciamento: l’amore è una battaglia, il corpo è una città in fiamme, la morte è una lettera scritta col sangue.
Ho voluto scrivere questa raccolta come se Majakovskij mi camminasse accanto nei giorni della fine: quando il mondo sembra crollare, quando le ideologie si disfano, quando anche l’amore sembra una parodia. L’ho sentito respirare nei miei versi. E forse era solo un’eco, forse era solo un trucco. Ma in quell’eco c’era tutta la verità che ci resta:
scrivere è resistere, e resistere è amare.
Per questo ho lasciato che fosse lui a parlarmi, e poi a parlare attraverso di me. Senza paura di sbagliare, senza pudore, senza sicurezza. Ho cercato di scriverlo come si scrive un amante morto: con le vene aperte e il cuore a nudo.
E ora, questo libretto è qui per chi ha ancora voglia di farsi ferire.
Perché la poesia, quella vera, non si legge: si subisce.
E quella di Majakovskij
– ve lo giuro –
fa ancora male.
1. “Amo” (dalla poesia “Лиличка!” – A Lilja)
Getta via tutto, brucia lettere e parole,
scorda l'odore dei miei passi
– ma io ti amo! –
come un lupo ama la luna che gli scappa.
Come un operaio ama il silenzio dopo il fumo.
Come una ferita ama la lama che l’ha fatta.
Amo:
non chiedere il perché.
È così.
Il cuore mi scoppia come un tram nelle curve.
Tu sei l’incendio.
Io, il poeta che brucia.
2. “La nuvola in calzoni” (estratto)
Io non sono un uomo, sono un grido!
Un lampo che cammina per strada
e chiede giustizia alle stelle.
Spezzatemi in mille, se volete:
ogni frammento sarà
rivoluzione,
sarà amore,
sarà poesia con le maniche rimboccate.
Sono la nuvola in calzoni,
strappo di cielo
con la rabbia dei poveri dentro.
3. “Ascoltate!” (da “Слушайте!”)
Ascoltate!
Se accendono le stelle,
vuol dire che a qualcuno servono, no?
Vuol dire che qualcuno vuole che brillino
– anche solo per un attimo –
nel cielo nero di Mosca.
Vuol dire che c’è un senso,
nascosto come un seme
nel cuore dell’universo.
4. “Il flauto di vertebre” (estratto)
Ho inciso la mia voce
sulle ossa del petto
come se fossero canne d’organo.
Ogni respiro suona
una nota della mia disperazione.
Non ho nulla da dare
se non questo corpo sfondato,
quest’anima che cola
come stagno fuso.
Fischia, amore,
nella mia spina dorsale:
è lì che ho messo la musica.
5. “Spacco la voce in due”
Spacco la voce in due,
la faccio urlare in bianco e nero,
la stendo come un lenzuolo
sulle barricate della città.
Sono il verbo che non chiede permesso.
Sono la sirena delle fabbriche
che canta ai morti e ai vivi.
Io non scrivo:
incido sulla carne
l’alfabeto dell’alba che viene.
E se nessuno ascolta?
Griderei più forte.
6. “All’amato me stesso” (testamento poetico, 1930)
A te,
che sei me,
quando non sarò più io,
lascio le mie rime come scarpe rotte.
Camminaci dentro
se ti reggono il passo.
Lascio versi duri
come chiodi nel legno,
per quando ti dimenticherai
quanto male faceva vivere.
Se vedi una stella,
non pensare al cielo:
è solo un buco
da cui Dio sbircia
quelli come noi
– che amano troppo e male.
7. “La mia poesia”
La mia poesia non fa la civetta tra le righe.
Non accarezza, non consola.
Ti sputa in faccia,
ti costringe a svegliarti,
ti bacia con la bocca piena di sangue.
È una sedia scagliata contro il vetro del cielo,
un urlo che ti strappa i bottoni dalla giacca.
Se vuoi bellezza,
vai da un fioraio.
Io ti offro l’inquietudine,
l’odore delle strade bagnate di benzina.
Io ti offro
la verità
senza vestiti.
8. “Amore” (da varie lettere e poesie)
Amare per me è
camminare a piedi nudi su vetri rotti
gridando il tuo nome a ogni passo.
Non mi basta la tua bocca,
voglio il tuo silenzio,
la tua rabbia,
il tuo passato che non conosco.
Amare è lasciarti andare
e seguirti comunque,
come fa il cane col padrone che l’ha dimenticato.
Io amo così:
senza risparmio,
senza dignità,
senza ritorno.
9. “E allora che fare?” (rifacimento da poesie civili)
E allora che fare
quando il cuore si è fatto pesante come piombo,
quando la città è un teatro vuoto
e gli attori fingono la vita?
Che fare,
quando ogni parola è sospetta
e l’amore sembra una barzelletta stanca?
Gridare!
Scrivere con i pugni,
amare come se fosse l’ultima ora della storia.
Io non mi arrendo.
Mi alzo, mi pettino il fuoco
e vado a dire al mondo:
"Tu non mi fai paura,
perché io sono il tuo sogno più sporco."
10. “Rivoluzione”
Non è una parola,
è un coltello che si passa di mano.
È il fumo nei polmoni del popolo,
il pugno chiuso
che batte contro il cielo borghese.
Rivoluzione non è un'idea:
è il pane quando manca,
la donna che non si inginocchia,
il poeta che brucia i versi
per scaldare i compagni.
E se mi chiedete che cos’è,
io dico:
guardami negli occhi.
Sono pieno di lei.
11. “Non ho finito”
Non ho finito di amare,
anche se l’amore mi ha spaccato i denti.
Non ho finito di scrivere,
anche se la poesia mi odia.
Non ho finito di urlare,
anche se la gola è sabbia.
Io sono ancora qui,
testardo come un semaforo in una città spenta.
Mi porto dentro il fuoco
come un crimine mai confessato.
E quando tutti dormono,
è allora che davvero
comincio a vivere.
12. “Alla poesia”
Tu mi hai preso da ragazzo,
mi hai insegnato a urlare in rima,
mi hai dato in pasto alla gente
come un animale raro.
Ti sei seduta sulla mia spalla
come un corvo innamorato.
Mi hai mandato via mille volte,
eppure eccomi qui.
Perché tu sei l’unica
che mi ha guardato davvero.
Anche quando piangevo
con le mani in tasca
e il cuore in frantumi.
13. “Odio”
Odio chi parla piano
per paura di disturbare.
Odio chi ama in silenzio
come se fosse una colpa.
Odio le poesie che si mettono in punta di piedi
per non offendere le tende.
Io voglio parole grosse,
che puzzano di vita,
che sudano,
che gridano.
Odio ogni cosa che somiglia al compromesso.
Voglio la verità
nuda,
con il rossetto sbavato.
14. “Il poeta”
Il poeta non è un angelo.
È un operaio della parola,
un ladro che scassina le frasi
per farci entrare il mondo.
Ha le mani sporche di grammatica,
gli occhi accesi come fornaci.
Non dorme:
sta sveglio a sorvegliare i sogni.
Il poeta non consola,
non educa,
non piange.
Il poeta
resiste.
15. “E poi” (testo immaginario per il suicidio)
E poi?
Si spegne la luce e restano le ombre.
Il mondo continua,
senza di me,
con la stessa indifferenza con cui un cane
continua a leccarsi dopo un’esplosione.
Ma non vi libererete di me.
I miei versi vi inseguiranno come debiti.
Soffieranno sulla nuca degli amanti,
parleranno alle rivolte future.
E anche da morto
– ridete pure –
sarò più vivo
di voi.