sabato 5 luglio 2025

La cinghia del diavolo (un racconto)

Aveva conservato la lanterna magica sotto il letto, tra i vecchi giochi, il vocabolario greco e la coperta infeltrita dell’ospedale. Nessuno l’aveva più accesa da anni. Dicevano che proiettasse mostri, ma lui, che al mostro dava ancora del tu, la teneva come un salvacondotto. Nei giorni più opachi, la accendeva. Bastava un muro bianco e tornava il castello. Quello senza scale, costruito in tana, dove poteva restare a vivere piegato, esule e re.

Il castello era fatto di carta pesta e tende sdrucite, ombre di sedie capovolte e tappeti messi in verticale. Era nato quando la voce di fuori diventava troppo alta, quando il rumore delle posate era un richiamo da incubo, e lui si infilava dentro il suo regno contorto dove tutto era storto ma nulla faceva male. I pupazzi avevano le cicatrici e i libri erano letti al contrario, ma ogni cosa aveva una logica. La sua.

La lanterna era un cuore ottico: proiettava figure che nessuno voleva più vedere. C'erano immagini che tremavano sui muri, vecchie trasparenze scolorite con angeli, foreste e draghi. Ma il suo preferito era il frame difettoso, quello strappato, con un volto che nessuno riconosceva più: un occhio solo, una bocca accennata, un ovale irregolare. Diceva che era il volto dell'anima sua: strappato, ma ancora visibile. Solo nel cono di luce.

Quando morì, non morì. Si distese solo. Non più capace di dormire nel dondolo, si lasciò andare dentro il lago. Era fango, era nero, era il suo doppio specchio. Lì dentro trovò l’immagine più fedele di sé: quella che non parlava, che non chiedeva più. Non sapeva nemmeno di essere sopravvissuto. Solo che galleggiava ancora. Le gambe inerti, i capelli come alghe. Nessun grido. Nessun battesimo.

Lo chiamavano con nomi falsi. Lui non rispondeva. Parlava solo con un diario. Un quaderno a quadretti, le pagine umide, gli angoli rosicchiati dal tempo. Scriveva di una cintura. Quella di cuoio, pesante, che lui teneva sempre appesa alla maniglia della porta. Quando la sollevava, lui contava i denti come quelli di un cane arrabbiato. “È la cinghia del diavolo,” aveva detto una volta la zia, che sapeva tutto. “Tira fuori i balocchi.” E non erano giocattoli.

Lui li vedeva: saltavano fuori dalle fessure della parete ogni volta che l’altro si chiudeva dentro. Erano i suoi balocchi rotti, quelli con l’occhio sbilenco, i nasi schiacciati, le giunture storte. Ridevano sguaiati, come se la carne fosse burla e la pelle una camicia da notte. Lui non piangeva. Aveva imparato a cambiare forma. A piegarsi in modo da sembrare un angolo, un lembo del tappeto. A smettere d’essere.

L’altro se ne andò un giorno d’inverno, lasciando dietro la cinghia e le impronte nel corridoio. Nessuno pianse. Lui non lo fece. Capì allora che il suo esilio era terminato. O forse solo cominciato. Il silenzio che restò era più pesante del rumore. Le stanze erano vuote, ma impregnate di lui. L'odore di tabacco spento, l'impronta del pollice sul vetro della finestra, la fessura sotto la porta che sembrava ancora scrutare.

Nel tempo che seguì, ogni tanto riaccendeva la lanterna. E nel cono di luce, tra il bagliore e l’ombra, rivedeva tutto: la tana, la cinghia, il dondolo muto. E se stava in silenzio abbastanza a lungo, il castello ricominciava a parlargli. Con voce di fango. Con voce sua. La voce che non aveva mai potuto usare. Che era rimasta dentro come un coltello interrotto. La voce che ora, finalmente, poteva uscire.

Scriveva nel diario parole che sembravano preghiere, ma non c’era nessun dio ad ascoltare. Scriveva per ricordare, ma anche per seppellire. Ogni frase era una pala di terra su quel passato molesto. La lanterna diventò allora un altare, una chiesa notturna. Vi poggiava davanti un piccolo cuscino, e si sedeva in ginocchio. Come un rito. Come una confessione.

Col tempo imparò a riconoscere le ore del giorno non dai rintocchi, ma dalla qualità della luce. Il mattino era un azzurro sbiadito, il pomeriggio un giallo torbido, la sera un grigio vellutato. Ma la notte, oh la notte. Era il momento in cui poteva essere. In cui il castello si apriva davvero, e le scale inesistenti comparivano solo per lui.

Cominciò a costruirne uno vero. Con scatole, stoffe, corde. Ogni stanza era un ricordo, un grumo. C'era la torre del silenzio, la cripta dei balocchi, la sala delle urla spente. Lo chiamava la Casa-Senza-Voce. Nessuno vi entrava. Solo lui. E il diario, e la lanterna. Ogni oggetto dentro era stato battezzato. Il cucchiaio piegato, la bambola con le ciglia strappate, il libro con la parola "misericordia" cerchiata a matita.

Un giorno, trovò dentro una valigia abbandonata una pellicola nuova. Non sapeva da dove venisse. Era avvolta in un fazzoletto a pois. La montò nella lanterna, e tremando premette l'interruttore. Sul muro apparve una scena: un prato, un bambino con un aquilone. Rideva. Non c’era niente di strano. Eppure, lui cominciò a piangere. Come se quell'immagine gli appartenesse. Come se fosse stato lui, quella volta, a far volare qualcosa.

Cominciò a proiettare ogni notte quella scena. Gli bastava. Il castello era diventato un giardino. Gli spigoli avevano smesso di ferire. La voce del fango era ancora lì, ma era diventata cadenza, musica. Il diario si era fermato a una pagina sola: “Sono qui. Sto guardando.”

E un giorno, semplicemente, non fu più solo.

Il testo è stato aggiornato: la protagonista femminile è ora un personaggio maschile, mantenendo intatti tono, simboli e struttura narrativa. Se desideri ulteriori modifiche — come un cambiamento nel lessico emotivo o nell’ambiente — posso intervenire ancora.