domenica 13 luglio 2025

"Amore mio aiutami": Il coraggio di ridere dell'amore che finisce


Introduzione

Nel 1969, Alberto Sordi dirige e interpreta "Amore mio aiutami", un film che, a distanza di più di cinquant’anni, continua a provocare disagio, risate nervose e riflessioni scomode. Al suo fianco, Monica Vitti dà corpo e voce a un personaggio femminile che ancora oggi sorprende per modernità, ambiguità e coraggio. Ma il vero tema del film non è solo la crisi della coppia: è il naufragio della modernità borghese, delle sue ipocrisie travestite da apertura mentale, del suo desiderio di libertà contenuto in una scatola di convenzioni sociali che esplode non appena si apre il coperchio.

"Amore mio aiutami" è un film che non si lascia racchiudere in un genere. È commedia e tragedia, è satira e realismo, è messa in scena e verità cruda. Sordi e Vitti non interpretano semplicemente una storia d’amore che finisce: si fanno testimoni di una trasformazione sociale che travolge ruoli, linguaggi, ideali.

In questo saggio si intende analizzare "Amore mio aiutami" come un’opera anticipatrice, corrosiva e attualissima nella sua disamina dell’identità maschile e della relazione di coppia, interrogandosi su un punto centrale: oggi avremmo davvero il coraggio di fare – o anche solo di guardare – un film così?

1. Un film sotto maschera: commedia tragica e verità sospesa

Apparentemente una commedia, "Amore mio aiutami" è in realtà una tragedia borghese dissimulata da risate. Come spesso accade nel miglior cinema italiano dell’epoca, il riso è un alibi per affrontare questioni irriducibilmente serie: il potere, il desiderio, il fallimento. Sordi, che firma qui la sua quarta regia, costruisce un meccanismo drammaturgico perfetto per raccontare la disgregazione dell’identità maschile sotto la pressione del cambiamento. E lo fa indossando i panni – comodi, stretti, a tratti patetici – di Giovanni Machiavelli, un banchiere che si proclama razionale, laico, moderno, ma che si scopre fragile e violento davanti alla libertà sentimentale della moglie.

Giovanni è l’italiano che vuole essere europeo, ma non sa rinunciare alla propria centralità. È l’uomo progressista a parole, ma reazionario nel cuore. È, in definitiva, un personaggio emblematico di un’epoca che credeva di cambiare senza cambiare davvero. In lui si condensano tutte le contraddizioni del maschio di fine anni Sessanta: emancipato nel discorso, ma profondamente dipendente da un’idea proprietaria dell’amore; assertivo nel pensiero, ma infantile nella pratica dei sentimenti.

La struttura narrativa del film, fondata su un crescendo di incomprensioni, autocensure, e sabotaggi affettivi, serve proprio a mostrare come anche i più avanzati “progressi” comportamentali della borghesia urbana siano spesso solo simulacri. Sordi ne fa una cartografia ironica e disperata, un’atlante del fallimento sentimentale in tempo di modernizzazione.

2. Monica Vitti: la voce del dissenso amoroso

Raffaella, interpretata da Monica Vitti, è l’altra metà della coppia e, in un certo senso, la vera protagonista morale del film. È lei che osa confessare di essersi innamorata di un altro uomo. Ma non fugge, non tradisce: chiede aiuto. Ed è proprio questo a sconvolgere Giovanni. L’infedeltà, quando viene confessata apertamente e con lucidità, mette in crisi il patto di ipocrisia su cui si fonda gran parte della vita coniugale.

Vitti, con il suo registro unico, riesce a mescolare levità e gravità, rendendo Raffaella al tempo stesso innocente e implacabile. Il suo personaggio è scritto con finezza: non è una femme fatale, non è una vittima, non è una ribelle. È una donna che cerca di essere onesta in un mondo che non tollera l’onestà nei sentimenti. La sua libertà emotiva è lo scandalo che manda in frantumi l’identità del marito.

Raffaella porta sullo schermo una consapevolezza sentimentale che sfugge alle categorie. È razionale senza essere calcolatrice, è emotiva senza essere passiva. Il suo amore per un altro non è una colpa, ma una verità che esige ascolto. E la sua richiesta d’aiuto è, forse, una delle frasi più rivoluzionarie mai pronunciate in un film italiano dell’epoca. È un gesto di fiducia e, al tempo stesso, una forma estrema di autodeterminazione.

In questo senso, la performance di Monica Vitti è centrale non solo per il film, ma per la storia della rappresentazione femminile nel nostro cinema. Il suo sguardo lucido e dolente, la sua voce ironica e chiara, compongono il ritratto di una donna che non chiede permesso per esistere, ma neppure si impone con aggressività. È, semplicemente, una persona intera.

3. La scena di Sabaudia: catarsi o disfatta?

Il momento più discusso del film è la celebre scena finale sulla spiaggia di Sabaudia. Giovanni, incapace di reggere l’angoscia della perdita, aggredisce Raffaella in una scena tanto grottesca quanto disturbante. La violenza fisica esplode come ultima risorsa di un uomo che si è proclamato superiore alla gelosia. È qui che la maschera del maschio moderno cade.

Questa scena oggi sarebbe oggetto di controversie feroci, e con buone ragioni. Ma è anche uno dei momenti più onesti del cinema italiano. Non perché giustifichi la violenza, ma perché la espone nella sua nudità: come fallimento, come disperazione, come impotenza travestita da reazione. La reazione del pubblico, che spesso ride in modo imbarazzato durante questa sequenza, è un sintomo della profondità del film: ci mette davanti a qualcosa che conosciamo ma non vogliamo ammettere.

Sabaudia diventa così non solo uno scenario, ma un teatro dell’inconscio: lì, tra la sabbia e l’acqua, si consuma la distruzione definitiva dell’illusione borghese. La razionalità, l’educazione sentimentale, la civiltà del dialogo – tutte maschere che si sfaldano. Rimane l’uomo solo, che non sa come amare, e la donna libera, che ha avuto il coraggio di parlare.

4. Il fallimento del maschio moderno: un’analisi più ampia

Giovanni Machiavelli è un personaggio profondamente attuale. È l’uomo che ha letto troppo Roland Barthes senza capirlo. Che ha introiettato il linguaggio della psicoanalisi e dell’emancipazione femminile, ma solo per difendersi meglio. Che si proclama “laico” nelle emozioni, ma che considera la moglie una sua proprietà affettiva.

Sordi non lo assolve mai, ma nemmeno lo condanna in modo banale. Lo espone, con sadica compassione, al pubblico. E il pubblico, inevitabilmente, ride: perché si riconosce. Giovanni è lo specchio in cui molti si sono riflessi, e ancora si riflettono. La sua figura, come quella di tanti personaggi sordiani, è costruita sull’autoinganno: non è l’uomo che mente agli altri, è l’uomo che si mente da solo.

Il fallimento del maschio moderno, dunque, non è solo una questione individuale, ma culturale. Giovanni rappresenta una classe sociale, una generazione, un’intera visione del mondo in cui il progresso è sempre stato qualcosa da ostentare, mai da interiorizzare. La sua “modernità” è scenografica, non sostanziale. Non si tratta solo di un uomo che perde una donna, ma di un uomo che perde il senso del proprio posto nel mondo.

5. Il coraggio di oggi: la censura del dubbio

Ma torniamo alla domanda iniziale: oggi avremmo il coraggio di fare – e di vedere – un film così? In un’epoca in cui i codici culturali, linguistici e politici sono cambiati profondamente, un’opera come Amore mio aiutami rischierebbe la censura morale prima ancora di quella legale. La scena di Sabaudia verrebbe bollata come inaccettabile. Il personaggio di Raffaella verrebbe analizzato come “problematico”.

Eppure, proprio oggi un film del genere sarebbe necessario. Non per provocare gratuitamente, ma per riaprire uno spazio di ambiguità e complessità nei discorsi sull’amore, la gelosia, il possesso. Il rischio, altrimenti, è quello di produrre solo narrazioni didascaliche, prive di zone d’ombra, dove i ruoli sono già decisi in partenza e non resta spazio per il dubbio.

Il cinema contemporaneo tende, talvolta, a temere la complessità. La paura di essere fraintesi ha portato molti autori ad autocensurarsi, a semplificare, a ridurre l’ambiguità. Ma senza ambiguità non c’è arte. Senza rischio, non c’è verità. E senza verità, il cinema non serve più a nulla.

6. Perché serve ancora ridere dell’amore che finisce

Il cinema italiano, nel suo periodo d’oro, ha saputo ridere dell’amore che finisce con una crudeltà piena di compassione. Amore mio aiutami appartiene a questa tradizione. È un film spietato e tenero, feroce e malinconico. Il suo humour è un’arma contro le finzioni del perbenismo sentimentale. E questo lo rende ancora oggi prezioso.

Perché se è vero che non possiamo più rappresentare certe dinamiche con la stessa ingenuità del passato, è anche vero che una società incapace di affrontare il paradosso delle emozioni umane è una società che ha rinunciato alla propria profondità.

Ridere dell’amore che finisce, delle sue smorfie e dei suoi eccessi, è un modo per esorcizzarlo e per capirlo. È un modo per restituire al sentimento la sua natura doppia: dolce e crudele, costruttiva e distruttiva, viva e finita. E Sordi, con il suo corpo impacciato, con il suo sguardo ferito, ce lo ricorda senza pietà e senza indulgenze.

Conclusione

Oggi, più che mai, servirebbero film come Amore mio aiutami. Film che non cercano di tranquillizzarci, ma di turbarci. Che ci mettono davanti alle nostre ipocrisie. Che ci costringono a guardare negli occhi il nostro bisogno d’amore, e la nostra incapacità di gestirlo.

Il coraggio di ridere di sé, del proprio disastro emotivo, del proprio fallimento affettivo, è forse la cosa più moderna che il cinema ci possa ancora insegnare. Perché nel ridere, si nasconde a volte l’ultima possibilità di capire. E nell’accettare la complessità, l’unico antidoto alla banalità dei ruoli precostituiti.

Rifare oggi un film come questo significherebbe accettare il rischio di non essere capiti, di essere attaccati, forse persino boicottati. Ma anche di toccare qualcosa di vero. E allora la risposta forse è: sì, avremmo il coraggio. Ma solo se impariamo di nuovo a guardare il cinema non per rassicurarci, ma per interrogarci.