Siedo tra rovine non antiche, ma appena appena sgretolate, come un giovane dio stanco che ha visto troppo, troppo poco. Ho fame.
Fame di sillabe scheggiate, di muri scritti col sangue di chi ha urlato prima di me, molto prima, e ha trovato solo silenzio risucchiato nei doppi vetri dei premi letterari.
Non sono nato per il consenso, né per la reverenza a tavola con gli accademici, che si passano il sale del dubbio sugli stessi versi da quarant’anni, mentre io mastico vetro e gioventù.
La poesia è un coltello — non una tazza di tè.
Nel ventre del mio tempo c’è un’eco che non obbedisce, un rumore acido, l’esofago che rigetta i motti rassicuranti.
Quelli che dicono: “Si cambia, maturerai anche tu”, non sanno che il mio verbo è ferita, e la mia maturità è un incendio che scavalca le corti dei poeti laureati.
Voglio sporcare la lingua, non ripulirla dal fango ma tuffarmici, bere la melma di tutti gli errori e sputarla in rima bagnata.
Voglio il canto gutturale del rifiuto, quello che ti sveglia alle quattro e ti dice: “Scrivi o muori”, non per fama — per resistenza.
Chiamatemi assassino di memorie, rubatore di fantasmi.
Ogni lirica ben pettinata sarà sfogliata, sovvertita, fatta a pezzi per un nuovo abito, un travestimento da battaglia.
I miei versi? Morsi. Le mie strofe? Urla tatuate su muscoli ancora elastici.
E tu, vecchio cantore, non osare parlarmi in tono paterno: io non sono tuo figlio, io sono la febbre che non ti uccide ma ti fa delirare.
Canto contro l’anello dell’oblio, contro la calma delle biblioteche, contro i premi, i convegni, i consensi.
Sono il discepolo infedele, il fuoco sotto il palco, la risata che esplode nel momento solenne.
Ho letto chi ha disertato, chi ha preso a calci le sedie dell’ordine, chi ha preferito la fame alla gloria.
E li chiamo maestri ma solo mentre li supero, correndo a piedi nudi sulle macerie del loro canto.
Nella mia gola c’è un osso: è la parola mai detta, quella vera. Non c’è in nessuna antologia. Non la troverete in vetrina.
Solo chi cammina con la notte piantata nel fianco può sentirla.
Ho la mia età, sì. Ma è un’età con dentro la peste, non il balsamo.
Un’età che infetta, che non guarisce, che scava canali nel sangue per versarci dentro la necessità.
Rifiuto la forma quando è gabbia, e la rima quando è trucco, il verso quando è carezza.
Datemi il margine — io ci scrivo il mio vangelo con l’urina e la cenere.
Non cerco approvazione. Cerco il precipizio.
La mia parola non cerca casa, non chiede letti morbidi, ma dorme per strada con i cani che ancora sanno ululare.
E se torno, vecchio poeta, non è per abbracciarti, ma per vedere se la tua voce trema davanti al mio passo.
Per vedere se ricordi — non chi eri, ma chi hai ucciso per diventare ciò che sei.
I tuoi bisbigli non mi commuovono. Le tue autocensure sono cicatrici sul volto della bellezza.
Hai baciato l’oblio e lo hai chiamato maturità.
Io sposerò il rischio. Anche quando sarà inutile, anche quando mi rideranno dietro nei corridoi dei festival di poesia.
Meglio ridere, dicono. Io preferisco mordere.
Mi disseto con l’urlo, quello che sale dallo stomaco, che ti rovina le corde vocali ma ti salva l’anima.
Il mio corpo è microfono per i morti senza nome.
Nessuna elegia. Solo sabbia e sangue. Solo saliva e parole non permesse.
E se vuoi un autografo, portami un coltello.
Non c’è più tempo per la gentilezza nei versi.
Ogni poesia è ora un grido, un urto, un’eresia.
Se non ti fa sanguinare, non è la mia.
A chi mi dice: “Un giorno capirai” rispondo: “Sto già capendo che non voglio capire”.
Voglio stare nel buio con chi ancora accende fiammiferi per vedere se il buio ha paura.
Vecchi poeti, vecchi padroni: nelle vostre bibliografie non c’è il nome del vento.
Io lo grido. Io lo mastico. Io lo sono.
E quando vi volterete non ci sarà più niente da ritrattare. Solo questo canto: ruvido, feroce, irriconoscente.
E finalmente vivo.
Questo testo è un vero e proprio manifesto lirico di disobbedienza, feroce e viscerale, che si scaglia contro l’istituzione poetica, la ritualità delle accademie, la canonizzazione dei versi e la complicità del consenso. Una dichiarazione poetica che non chiede spazio, lo incendia.
L’io lirico si pone come un giovane dio stanco, affamato non di bellezza, ma di “sillabe scheggiate”, cioè di parole violente, rotte, irregolari. Non cerca la grazia della forma, ma la sua negazione, la sua distruzione — perché in essa ha riconosciuto la trappola dell’addomesticamento. L’“anello dell’oblio” del titolo diventa simbolo di una letteratura sedata, sclerotizzata nei premi e nelle biblioteche, mentre lui reclama un canto “gutturale”, “sporco”, “non per fama — per resistenza”.
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Antipoetica militante: ogni verso è un rigetto dell’establishment poetico. Le “elegie”, le “antologie”, i “convegni”, i “festival”, persino le “rime” sono bersagli. "Dormire per strada con i cani che ancora sanno ululare”: non esiste più un dentro, solo margini e clandestinità.
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Scrittura come ferita: la poesia non è sollievo ma corpo a corpo. Non consola: lacera. “Il mio verbo è ferita”, “ogni poesia è un grido, un urto, un’eresia”. Il gesto poetico si carica di una potenza iconoclasta, quasi anarchica, un linguaggio contaminato, istintivo, selvatico.
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Rifiuto della filiazione: rifiuto di ogni genealogia. I “vecchi poeti” non sono padri, sono carnefici. Si riconoscono solo per distruggerli: “non sono tuo figlio, io sono la febbre che non ti uccide ma ti fa delirare”.
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Visione “epica” del margine: non si tratta solo di rifiutare il centro, ma di rivendicare il fuoco poetico che nasce nei sobborghi, nel fango, nel rifiuto: “scrivo il mio vangelo con l’urina e la cenere”. È un’estetica dell’abiezione, che rifiuta la poesia come ornamento e la riconquista come urgenza.
Ci troviamo in una linea che passa attraverso Rimbaud, Artaud, Pasolini, Patrizia Vicinelli, Kathy Acker, ma anche i rappers più estremi e gli slammer che fanno della parola una forma di guerriglia. Il testo rientra a pieno titolo tra le poetiche post-traumatiche e post-apocalittiche: affini al grido di Simic, alla desacralizzazione di Anne Carson, alla brutalità gentile di Mariangela Gualtieri quando parla “con la bocca piena di terra”.
Una poetica queer e insurrezionale? Sì, anche. Non nel senso di una tematica esplicita, ma nella sua radicale messa in discussione dell’ordine normativo del linguaggio. Questa è una scrittura bastarda, che si rifiuta di essere legittimata, che preferisce mordere piuttosto che essere accolta. Il “vangelo scritto con urina e cenere” è un gesto che queerizza la parola, ne strappa via la compostezza.
Questo canto contro l’anello dell’oblio non è una poesia. È una bottiglia rotta sulla lingua. Un atto di guerra contro la dimenticanza, contro il compromesso, contro la neutralizzazione del fuoco poetico. È parola incarnata, ferita, irricevibile. Eppure necessaria. Per chi ha ancora fame.