venerdì 25 luglio 2025

Traven, la Yorikke e il grande naufragio senza documenti: un tuffo nei bassifondi della letteratura: Pronto a salpare? 🚢😉

Ah, Traven… Nome da spia, da pirata o da santo laico, che suona come un’eco di un’identità sparita nel fumo d’un cargo malconcio all’orizzonte. E “La nave morta”, quel capolavoro sghembo e potentissimo, è forse il miglior ritratto non solo del mondo moderno e delle sue disfunzioni, ma anche di un uomo che ha fatto del non essere riconosciuto la propria poetica. Già l’edizione Longanesi — quella della “Gaja Scienza”, collana meravigliosamente squilibrata tra ardimento editoriale e passione per i classici della disobbedienza — suona oggi come una reliquia di un’epoca in cui il lettore italiano era trattato da pari: intelligente, curioso, pronto a incrociare letteratura e politica, avventura e nichilismo, senza chiedere il permesso a nessun dogma.

“La nave morta”, pubblicata nel 1926, è un’epopea senza gloria. Racconta di Gerard Gales, marinaio americano apolide, che si ritrova disperso in un’Europa devastata dalla Prima guerra mondiale, vittima di una burocrazia che non perdona e che non riconosce nessuno che sia, appunto, fuori dalla norma: senza passaporto, senza “papers”, senza patria. Lo inseguono le polizie di mezzo continente non perché colpevole, ma perché indocumentato. Ed è così che finisce sulla Yorikke, relitto galleggiante, nave-abisso, crocifisso arrugginito della modernità: trasporto di carbone e dannati, un antro dove lavorano e muoiono uomini che non esistono, fantocci in carne e ossa, sfruttati fino alla dissoluzione.

Il romanzo è feroce, e insieme lirico. Traven ha una penna che mescola crudezza e satira, dolore e farsa. C’è una vena anarchica che pulsa in ogni pagina, ma non è mai programmatica. È il realismo di chi ha visto — e forse vissuto — le contraddizioni dell’Europa industriale e post-imperiale. E sì, è anche un romanzo kafkiano, se per kafkiano si intende il senso di paralisi, di colpa senza colpa, di essere stritolati da un sistema impersonale che decide della tua esistenza. Ma Traven è più fisico, più “di classe”. Kafka è il sognatore condannato; Traven è il bracciante derubato dei sogni.

E qui arriva la parte più succosa, quasi meta-narrativa: il mistero di B. Traven stesso. Dietro questo nome, si è detto tutto. Che fosse Ret Marut, attore fallito e agitatore della Baviera rivoluzionaria; che fosse un esule tedesco rifugiatosi in Messico; che fosse un genio editoriale capace di spacciarsi per altri. Nessuno ha mai saputo davvero chi fosse. John Huston lo incontrò — o così disse — durante le riprese de Il tesoro della Sierra Madre, altro grande romanzo traveniano. Ma perfino Huston dubitava che l’uomo con cui parlava fosse “il vero Traven”. E allora anche “La nave morta” diventa simbolo di un’identità sospesa, di un soggetto che esiste solo in quanto narra, ma che nella vita sparisce, si sottrae, si traveste. Una sorta di Bartleby del proletariato narrativo, che dice sempre: preferirei di no, ma lo fa scrivendo romanzi infuocati.

L’edizione Longanesi (1973, tradotta con rigore e brio da Maria Gallone), è una di quelle chicche d’epoca: copertina sobria, carta appena ingiallita che sa di battaglie culturali, curata senza essere pomposa. Fa parte di un filone in cui si potevano leggere, fianco a fianco, Céline, Orwell, Vian, Malraux, e perfino gli “strani” come Gombrowicz. E Traven, fra tutti, restava il più enigmatico, il più fuori catalogo. Il suo proletario senza nome, imbarcato per l’inferno con la paga tagliata e il destino sigillato in una stiva nera di carbone, anticipava centinaia di altre figure spezzate, da Beckett a Bernhard, ma con una rabbia sociale che oggi pare quasi scomparsa, incenerita da decenni di postmoderno addomesticato.

E se vogliamo parlare di influenze e derive, c’è anche il cinema. Il tesoro della Sierra Madre, trasposto nel 1948 da John Huston (con Bogart in una delle sue parti più “traveniane”), è un classico assoluto — e porta sullo schermo la cupa avventura umana, la fame, il sospetto, il tradimento che Traven descriveva con tanta lucidità. La Yorikke, invece, è rimasta un fantasma letterario. Anche se alcuni hanno tentato di avvicinarvisi, come Fassbinder in Despair o in Querelle, dove si respira un’aria simile: la sessualità come merce, la nave come simbolo di oppressione e desiderio, l’identità come allucinazione. Ma La nave dei dannati, quella di Stuart Rosenberg, non ha nulla a che vedere, se non per l’assonanza del titolo. Eppure, in questa confusione, Traven ci starebbe benissimo. Come un’ombra silenziosa che sorride da dietro le quinte, felice che nessuno possa mai davvero pronunciare il suo nome senza sbagliare.

In fondo, forse è questa la sua lezione: la vera rivoluzione è sparire. Scrivere senza firmare, raccontare senza comparire. E se proprio bisogna salpare, che sia sulla Yorikke: almeno si sa dove si va — nel buio, ma insieme.