giovedì 10 luglio 2025

Il peso della coerenza nelle parole estreme



Ci sono giornate in cui mi capita di guardare da fuori. Fuori da tutto, intendo. Fuori dai percorsi già battuti, fuori dai luoghi dove si decidono le narrazioni che contano, fuori dai convegni, dalle riviste accademiche, dai festival letterari dove ci si incontra e ci si riconosce, dove ci si legittima a vicenda. Fuori anche da quei dibattiti in cui si misura il peso specifico di una voce, e dove il dissenso, quando c’è, è sempre ben educato, ordinato, impacchettato in formule che non disturbano nessuno. Abito uno scarto. Una zona interstiziale. E no, non lo dico con orgoglio né con risentimento: lo constato. È uno spazio che si crea da sé, a margine, ogni volta che si sceglie di non aderire, ogni volta che si preferisce il confronto disordinato tra pochi amici alla coerenza pubblicitaria delle intese culturali.

Nel mio piccolo, continuo a muovermi grazie a quegli scambi vivi, precari e generosi che resistono ancora tra persone che si ostinano a cercare il senso delle cose anche quando non conviene più a nessuno. Persone che provano a mettere in piedi momenti di confronto, a interrogarsi senza la pretesa di avere già le risposte, che sanno stare nell’inquietudine e non temono di esporsi senza paraventi.

Eppure, anche da questa posizione laterale, non posso fare a meno di sorprendermi. Una sorpresa che ormai è diventata una specie di rituale privato, qualcosa a metà tra l’amarezza e lo stupore infantile. Succede ogni volta che leggo testi, articoli, saggi perfino, scritti da persone che si sono spese — e in alcuni casi continuano a farlo — per riportare alla luce voci ed esperienze radicali, figure che hanno incarnato il dissenso in modo autentico, rischioso, profondo. Penso a chi scrive di corpi emarginati, di poetiche dell’eccesso, di pratiche dell’alterità, di irriconoscibilità, di vita vissuta come opposizione. E poi, nel giro di poco, ritrovo quegli stessi nomi allineati con forme di pensiero che sembrano concepite apposta per smussare ogni asperità, per ridurre l’esistenza a qualcosa di gestibile, controllabile, rassicurante.

Mi chiedo spesso come sia possibile un tale scarto. Non in senso morale, ma proprio intellettuale. Come si può passare da Genet all’apologia dell’ordine, da Artaud alla difesa del buon senso, da Pasolini al culto del “ci vuole misura”? Come si arriva a trasformare l’esperienza del limite — che in quelle figure è totalizzante, costitutiva — in un puro elemento di stile, in qualcosa da raccontare in terza persona, sterilizzandolo? Come si riesce a mantenere una faccia serena quando si celebrano in pubblico i martiri della disobbedienza e, nello stesso tempo, si legittimano idee che invitano tutti a rientrare nei ranghi?

Mi rispondo a fatica. A volte penso che si tratti solo di strategia. Di quel calcolo mimetico che permette di essere dappertutto senza mai essere davvero in discussione. Altre volte, invece, penso che sia una forma di paura. Paura di restare davvero soli con le proprie convinzioni. Paura di perdere accesso ai canali giusti. Paura di quel silenzio che si fa quando si rinuncia a compiacere.

Ma forse la risposta più semplice è che le parole si consumano. Che anche i discorsi sulla radicalità, a furia di essere ripetuti, letti, commentati, diventano alla lunga parte dell’arredo. Non disturbano più, non feriscono, non sovvertono nulla. E così, citare Bataille diventa un gesto da compiere come si indossa una giacca di taglio insolito, come si beve un vino naturale: segno di distinzione, di gusto colto, non certo di scontro con l’esistente.

In tutto questo, chi si muove fuori — senza visibilità, senza padrinaggi, senza desiderio di compiacere — finisce per guardare con crescente perplessità. Non per rabbia, ma per dissonanza. Perché qualcosa non torna. Perché si continua a celebrare l’inattuale, il maledetto, l’eccessivo, ma solo a condizione che resti sul foglio. Solo a condizione che non interferisca davvero con le forme del presente.

E allora l’ingenuità, la mia almeno, è tutta qui: nel credere ancora che esista un legame tra ciò che si scrive e ciò che si vive. Tra ciò che si celebra e ciò che si difende. Nel credere che la scrittura, quando tocca certi nomi, certe esperienze, certi abissi, implichi un’assunzione di responsabilità, un rischio, un posizionamento reale.

Per questo, ogni volta che vedo quell'incoerenza rinnovarsi — quella che prende i nomi estremi e li accomoda in ragionamenti moderati, quella che trasforma il fuoco in protocollo — provo una sorta di tristezza lieve, discreta, ma insistente. Come quando si rientra da un viaggio e si trova la propria stanza identica a prima, ma con qualcosa di opaco, come se nel frattempo si fosse depositata una polvere invisibile su tutto. Una polvere che non se ne va.

Non si tratta di pretendere purezze impossibili, né di fare processi alle intenzioni. Ma di tornare a chiedersi, con un minimo di radicalità reale: cosa facciamo davvero con quello che scriviamo? E cosa ci facciamo fare?