Una figura bifronte: tra avanguardia teorica e architettura come dispositivo
Rem Koolhaas incarna, fin dagli esordi, la tensione irrisolta tra la prassi progettuale e la speculazione teorica. Nato a Rotterdam nel 1944, formatosi tra Londra e New York, Koolhaas assume la città moderna come oggetto di indagine non solo progettuale ma epistemologica, a partire da un metodo che è al tempo stesso analitico e narrativo. L’interesse per l’avanguardia russa (Tatlin, Lissitzky, Leonidov), per la verticalità iperbolica di Manhattan, per il dinamismo impersonale del capitalismo globale, fanno di Koolhaas un interprete lucido e spesso paradossale della città come sistema di forze contraddittorie. Testi come Delirious New York (1978), concepito come una retrospettiva "falsamente" storicizzata di Manhattan, e S, M, L, XL (1995), monumentale compendio visivo e concettuale, rappresentano momenti di svolta nella cultura architettonica contemporanea: non semplici supporti alla progettazione, ma veri e propri laboratori linguistici dove l’architettura è decostruita e riscritta come forma critica, come linguaggio, come montaggio.
La dimensione narrativa dell’architettura assume in Koolhaas un ruolo fondativo: l’architettura non è mai solo costruzione di spazi, ma anche costruzione di visioni. La città è per Koolhaas un palinsesto fluido, dove i segni si stratificano e si contraddicono. Non è un caso che il suo pensiero sia stato spesso accostato a quello di Foucault, per la capacità di leggere lo spazio come dispositivi di sapere e potere, ma anche a Roland Barthes, per la costante consapevolezza del ruolo semiotico dell’architettura come produzione di senso.
Il saggio di Biraghi: uno sguardo storico-critico, oltre l'agiografia
Marco Biraghi, storico dell’architettura e docente al Politecnico di Milano, affronta la figura di Koolhaas con un approccio critico che rifugge tanto dall’agiografia quanto dalla demolizione ideologica. Il titolo del volume, Architettura al di là del bene e del male, è già indicativo dell’approccio adottato: non si tratta di sancire una definitiva valutazione etica o estetica, ma di indagare le contraddizioni strutturali che attraversano l’opera di Koolhaas, il suo posizionamento tra la tensione utopica e la complicità con i meccanismi di potere neoliberale. L’eco nietzscheana del titolo sottolinea la necessità di sospendere i giudizi morali per cogliere appieno la portata filosofica, quasi tragica, dell’impresa koolhaasiana.
Biraghi individua infatti una duplicità costitutiva nell’intera produzione dell’architetto olandese. Da un lato, la forza analitica con cui Koolhaas ha saputo anticipare e leggere le trasformazioni dell’urbano globale – dalla Cina post-socialista al Golfo Persico, dalle megalopoli africane alla dissoluzione del welfare europeo. Dall’altro, una progressiva tendenza verso la formalizzazione spettacolare e l’autocompiacimento iconico, sintomi di una certa "americanizzazione" del progetto, ridotto talvolta a performance retorica.
Anatomia di alcuni progetti emblematici
Attraverso una serie di casi studio, Biraghi costruisce una narrazione critica che tiene insieme evoluzione progettuale e involuzioni teoriche. La Kunsthal di Rotterdam (1992), ad esempio, rappresenta uno degli esempi più emblematici della prima stagione progettuale di Koolhaas, dove l’architettura riesce a mediare tra programma funzionale e città, tra astrazione e contingenza. L’edificio si impone come una macchina percettiva, un montaggio di frammenti che problematizzano la nozione stessa di museo.
All’opposto, interventi come De Rotterdam (2013) o il Centro congressi di Eurolille mostrano un’adesione più marcata a logiche di scala e spettacolarità, in cui la complessità urbana rischia di essere assorbita da un dispositivo iconico totalizzante. Si tratta di progetti che riflettono l’evoluzione del ruolo dell’architetto nel mondo globalizzato: da intellettuale critico a fornitore di immaginari al servizio della city-branding e della governance neoliberale.
Il caso del CCTV Headquarters di Pechino (2008) appare particolarmente emblematico: se da un lato l’edificio è formalmente rivoluzionario e tecnicamente sbalorditivo, dall’altro esso pone interrogativi inquietanti sul rapporto tra architettura e potere autoritario, e sull’eventuale neutralità (o complicità) dell’architetto di fronte a regimi illiberali. Similmente, la Casa da Música di Porto (2005), pur nella sua eccellenza formale e acustica, lascia aperta la questione dell’integrazione urbana e della fruibilità sociale.
La riflessione sulla Fondazione Prada a Milano (2015) consente infine a Biraghi di aprire un fronte critico ulteriore: la ridefinizione del rapporto tra cultura, architettura e capitale. Qui Koolhaas agisce più come curatore di un paesaggio estetico che come architetto nel senso tradizionale. La fondazione si presenta come una "cittadella dell’arte" chiusa e autoreferenziale, testimonianza di una cultura museale sempre più elitaria e sottratta alla cittadinanza.
Conclusioni: genealogia e ambiguità del pensiero koolhaasiano
Nel bilancio finale, Biraghi si guarda bene dal produrre sintesi rassicuranti. Koolhaas emerge come una figura cruciale ma controversa: egli ha saputo, come pochi altri, fornire all’architettura contemporanea un vocabolario critico adeguato alla sua epoca; ma al tempo stesso ha incarnato molte delle sue derive più discutibili, dalla spettacolarizzazione all’autonomia disciplinare, dalla perdita del referente etico-politico all’assunzione dell’architettura come linguaggio autoreferenziale.
Tuttavia, proprio nella sua ambiguità, Koolhaas resta imprescindibile. Non per il valore assoluto delle sue architetture, ma per la potenza delle sue domande. La sua opera, letta attraverso la lente di Biraghi, si configura come uno specchio delle contraddizioni del nostro tempo: un tempo in cui l’architettura è chiamata a ripensare se stessa non solo come tecnica, ma come forma di conoscenza, strumento di lettura del reale, e possibilità di alterazione del mondo.
Rem Koolhaas. Architettura al di là del bene e del male è un contributo che si pone al crocevia tra la storia dell’architettura, la teoria critica e la filosofia politica dello spazio. Non solo una monografia, ma una meditazione sul ruolo dell’intellettuale architetto in un mondo che cambia vertiginosamente. Un testo che interroga più che celebra, e che per questo merita di essere assunto come strumento critico, didattico e, soprattutto, dialogico.