domenica 20 luglio 2025

Tutto il dolore necessario

Mi hanno detto che la verità libera. Che fa bene. Che guarire è possibile, e che raccontarsi è già un inizio. Ma la verità, quando arriva, non guarisce. Ti svuota. Come l’onda che non lava ma scava. Ti porti via da solo. Ti riduci. Ti spezzi. E nel meglio dei casi, sopravvivi.

Sopravvivi per raccontarla. Ma non come vogliono loro. Non nei modi puliti, redenti, nelle parole dritte come rotaie. No. La verità ha un odore acre. Come di ferro arrugginito. Ti resta in gola. E non se ne va. Si attacca ai vestiti, ti segue nelle stanze. Dorme con te. Mangia con te. E quando credi che se ne sia andata, ti aspetta dietro l'angolo.

Mi hanno detto: "Scrivi di ciò che conosci." E io ho conosciuto la vergogna. La stanza senza finestre. Il silenzio come una colpa. L’attesa che qualcuno ti venga a cercare. E invece niente. Neanche un cane. Ho conosciuto il gelo dei giorni tutti uguali, il sapore stantio dell’umiliazione. La voce che trema quando non c'è nessuno ad ascoltarla. E quel tremore diventa legge, diventa lingua. Si scrive così: col nodo alla gola.

Ma quella cosa che dicono, della pietà... ecco. È vera. Quando ti guardano con disprezzo o pena, vuol dire che sei arrivato al nocciolo. Hai tolto ogni sovrastruttura. Hai scavato nella carne. Allora puoi cominciare a scrivere. Non prima. Non quando sei ancora intero. Solo quando sei diventato qualcosa di rotto e vero. Quando non puoi più fingere di essere altro.

Per anni ho scritto per piacere. Per far colpo. Per sentirmi dire bravo. Era pornografia di me stesso. Narcisismo da quattro soldi. Poi è arrivata la rovina. La vera. Quella che non ha bisogno di spettatori. Quando tutto è crollato, io sono rimasto lì. In piedi solo per abitudine. Come un mobile difettoso. E a quel punto, lì, ho cominciato a scrivere davvero. Perché non avevo più niente da difendere. Né orgoglio, né reputazione, né speranza. Solo la fame, ancora, quella fame antica che mi ha tenuto in vita.

Non si può scrivere se non si è sofferto. Non si può nemmeno parlare. Al massimo si chiacchiera. Ma chi ha sofferto davvero, chi è passato per la fornace, per lo squallore più nudo, non può più mentire. Non può abbellire. Non può trattenere. E allora scrive con il sangue, con la bile, con la pelle. Scrive senza più pensare a chi leggerà. Scrive perché non può non farlo. Scrive perché l'alternativa è morire.

Io ho amato chi non mi ha voluto. Ho desiderato corpi che mi rigettavano. Ho sperato in occhi che si voltavano altrove. Ho immaginato carezze che erano solo pietà. E ci ho costruito castelli. Sogni. Favole. Poi ho imparato che la realtà non è fatta per consolare. Che nessuno viene a salvarti. E che chi lo fa, spesso, ti chiede in cambio la tua anima. Ho imparato a guardare senza chiedere. A desiderare in silenzio. A vivere di scarti, di briciole, di sguardi rubati.

C'è una fame, dentro alcuni, che non si sazia. Una fame di senso. Di bellezza. Di calore. Ma si cresce in mezzo ai calci, alle porte chiuse, ai letti vuoti. Si cresce imparando che l’amore non arriva. E allora o ti spegni, o ti accendi a caso. E io mi sono incendiato, ogni volta, per niente. Ho bruciato tutto. Ero cenere a vent’anni. E nessuno è venuto a spegnermi. Nessuno ha pianto per me. Eppure io piangevo per tutti.

Ma la scrittura è una forma di superstizione. Si scrive per evocare, come gli sciamani. Per dire: guarda, è successo. Ed è vero. Però adesso è mio. L’ho trasformato. L’ho inchiodato alla pagina. Non mi può più mordere, non con la stessa forza. Ma ogni tanto ci prova. La memoria ha zanne. Ti arriva addosso nei sogni, nei gesti automatici, nelle parole degli altri. La scrittura è un esorcismo perpetuo.

Eppure ogni parola costa. Ogni frase scritta col dolore ti invecchia. Ti scava. Ma non puoi fare a meno. Perché la verità, una volta conosciuta, pretende di essere detta. Non c'è più pace, dopo. Non c'è più silenzio innocente. Ogni quiete diventa complicità. Ogni reticenza, un tradimento. Scrivere diventa allora il contrario del pudore, il contrario della protezione.

La malattia. L’angoscia. L’assenza d’amore. Tutto ciò che ho vissuto e che vivo. Non lo nego. Non lo addolcisco. Lo espongo. Come si espone una piaga al sole, sperando che almeno lì qualcosa si cicatrizzi. O che qualcuno la veda. E dica: anche a me. Perché siamo soli, ma lo siamo insieme. E questo basta, a volte. Questo è già redenzione.

L’oblio, no. L’oblio è la morte vera. Io non voglio essere dimenticato. Nemmeno se mi odiano. Nemmeno se si vergognano di me. Voglio lasciare una traccia. Un segno, anche piccolo. Anche distorto. Ma che dica: sono passato. Ho sofferto. E non ho mentito. Non ho abbellito. Non ho taciuto. E se ho sbagliato, l’ho fatto alla luce del sole. Senza scuse. Senza veli.

E se anche questa verità fosse inutile? Se servisse solo a me? Se non redimesse nessuno, nemmeno me stesso? Va bene. La accetto. La verità non è un contratto. È un urlo. Un battito. Un respiro. E non può essere ritrattata. Non cerca consenso. Non chiede applausi. Non salverà il mondo, ma mi tiene in vita.

Questa è la verità. Non è edificante. Non è vendibile. Ma è tutto ciò che ho. E se dovessi ricominciare mille volte, sceglierei ancora questa strada. Quella che fa male. Quella che non salva. Ma che dice tutto. Perché nel dire tutto, anche solo per un istante, si resta vivi. E vivi davvero. E questo, per me, è abbastanza.