giovedì 24 luglio 2025

Una diagnosi dell’anima. "Cartella clinica" di Serena Vitale (Sellerio)

I. Il corpo come linguaggio: autobiografia in forma di ferita

Cartella clinica, titolo spiazzante e chirurgico, è tutt’altro che un semplice referto. L’opera di Serena Vitale, edita da Sellerio nel 2024, è un oggetto narrativo ibrido, volutamente indefinibile: una partitura di dolori ordinati con precisione entomologica, una discesa meditata e consapevole nella topografia del proprio corpo e della propria vita. Non c’è trama, non c’è concatenazione, ma una sequenza di istantanee, appunti, casi clinici, potremmo dire, tutti riferiti all’unica paziente che qui interessa: l’autrice.

Fin dalle prime pagine, l’effetto che si prova è duplice: da un lato il lettore è messo nella posizione di un medico – che sfoglia una cartella, analizza valori, segue l’andamento di una malattia – dall’altro si scopre subito anche testimone e partecipe di una confessione pudica, portata avanti con la freddezza necessaria a non cadere nel lamento. La Vitale scrive senza autocommiserazione, senza indulgere in pietismi. Le sue parole sono vetro trasparente: fanno passare la luce, ma non attenuano il dolore.

Questa freddezza apparente non va confusa con distacco emotivo. Piuttosto, si tratta di un esercizio di estrema lucidità. La lingua si fa strumento di sopravvivenza, un modo per dare ordine a ciò che nel corpo è disordine: il dolore, l’attesa, la malattia, l’incertezza, la paura. Come scrive lei stessa in un passaggio chiave: “Annotare, nominare, è già arginare.”

II. Lo stile della resistenza: frammento, precisione, silenzio

Lo stile è l’altro protagonista. Serena Vitale – slavista, traduttrice, filologa – si muove in uno spazio linguistico dove nulla è superfluo. Ogni parola è scelta con disciplina monastica, ogni frase pare scolpita. La sua scrittura è frammentaria ma mai casuale, si articola in brevi testi (alcuni di poche righe, altri più estesi), che funzionano come quadri autonomi ma interconnessi: ricordi d’infanzia, visite ospedaliere, considerazioni etiche, micro-ritratti di amici e parenti perduti. Tutto torna, come in una radiografia che nel tempo rivela un disegno più profondo.

Il lessico è asciutto, quasi clinico, ma non disumanizzato. È il lessico di chi ha letto molto, vissuto molto, e ora torna a "leggersi" nel corpo come si rilegge un manoscritto antico, alla ricerca del senso nel margine di un appunto. Qui si avverte una sorellanza segreta con Annie Ernaux, ma senza la furia documentaria: la Vitale non denuncia, non rivendica. Semplicemente registra, ma con uno sguardo che sa tagliare e allo stesso tempo comprendere.

La punteggiatura ha un ruolo fondamentale: i punti sospensivi, i trattini, le frasi interrotte agiscono come silenzi parlanti. È una scrittura che non teme il vuoto, che lascia spazio all’incompiuto, come se il non detto fosse più eloquente del detto. Questo è uno dei tratti più profondi del libro: la capacità di far parlare il silenzio.

III. Temi ricorrenti: ospedali, madri, lettere, tempo

Nel corpo del testo ritornano continuamente alcuni temi chiave che assumono valore simbolico.

L’ospedale, prima di tutto, non è solo un luogo fisico ma uno spazio esistenziale. È lì che si è nudi, in attesa di diagnosi, in balia degli altri. Ma è anche lì che la memoria affiora con più forza. Ogni letto, ogni corridoio, ogni bisturi diventa occasione per un flash della memoria. In una delle prose più dolorose, la Vitale rievoca la madre morente e la propria impotenza. Ma anche qui la scrittura non cede al pianto: “Dovevo restare vigile. Non per lei. Per me. Per sapere.”

Altro nodo: la scrittura epistolare. Il libro è disseminato di lettere mai spedite, frammenti di corrispondenze, biglietti interrotti. È come se l’autrice avesse bisogno di scrivere a qualcuno per poter scrivere a sé stessa. Ogni lettera è un dialogo mancato, un tentativo di riaprire ferite chiuse male, o forse mai davvero curate.

E ancora, il tempo. Cartella clinica è un libro sul tempo soggettivo: il tempo che si dilata nell’attesa, che si accorcia nella paura, che si deforma nella malattia. Il tempo della vecchiaia, soprattutto, è presente con nitida coscienza: non come declino, ma come condizione per uno sguardo spoglio e finalmente libero. “Ora che non ho più bisogno di piacere a nessuno, posso dire la verità.”

IV. Sotto il lettino: lettura psicanalitica

Al di là della superficie narrativa, Cartella clinica può essere letto come una seduta psicanalitica trascritta in tempo reale. L’autrice, paziente e analista di sé stessa, affronta non solo il corpo ma il rimosso: sogni, traumi, desideri censurati, nonché la componente pulsionale della scrittura. Il libro è attraversato da un conflitto tra Eros e Thanatos, ma mai espresso nei termini teorici della disciplina freudiana: piuttosto in modo indiretto, per via poetica.

Il corpo malato è anche il corpo desiderante. In certi passaggi, la Vitale allude a relazioni interrotte, a sguardi che bruciano, a presenze che mancano. Il testo allora si fa erotico per assenza, per allusione, per sottrazione. Una libido trattenuta, che si converte in rigore formale.

Anche la scrittura stessa diventa atto terapeutico. Annotare sintomi, ricordi, paure, serve non solo a ordinarli ma a distanziarli, a renderli dicibili. La frammentazione del testo rispecchia quella dell’io: non un’identità coesa, ma un mosaico mobile, in cui ogni pezzo è anche una diagnosi. E, paradossalmente, il lettore finisce per farsi analista, nella misura in cui raccoglie, collega, interpreta.

C’è, direi, una forma di salvezza possibile, o almeno di accettazione. Non c’è redenzione, ma c’è lucidità. Il libro si chiude (senza davvero chiudersi) con una nota che somiglia a un congedo: “Tutto è ancora qui. Solo più leggibile.” In questa frase sta, forse, l’intero senso del lavoro di Serena Vitale: rendere leggibile il dolore, e dunque – almeno in parte – abitabile.

V. Il corpo come testo, o la scrittura come medicina dell’essere

L’intero impianto narrativo di Cartella clinica può essere letto come una grande metafora epistemologica: il corpo malato come superficie su cui si iscrive l’identità, e la scrittura come tentativo di leggere, interpretare, trascrivere quella superficie. Serena Vitale si fa scriba del corpo, raccoglie referti non per comprenderli scientificamente, ma per interrogarli ontologicamente. Non chiede: “cos’ho?” ma: “chi sono diventata, attraverso questo dolore?”

Il corpo, in questo libro, non è né oggetto né soggetto: è medium. È il luogo dove tutto accade, ma anche il luogo che tutto registra. È il supporto materiale della memoria, della coscienza, dell’identità che cambia. Come un palinsesto, reca le tracce sovrapposte di fasi diverse dell’esistenza. Serena Vitale lo guarda non come paziente passiva, ma come filologa del proprio incarnato: ogni cicatrice, ogni perdita di peso, ogni ronzio nell’orecchio è un segno da interpretare, come si fa con un manoscritto consunto.

La sua scrittura è infatti vicina a un gesto ermeneutico: non si limita a raccontare, ma decifra. In questa luce, l’intero libro diventa un’operazione che potremmo definire fenomenologica: non narra ciò che accade, ma si interroga su come l’esperienza del corpo malato si dia alla coscienza. La sofferenza non è solo oggetto, ma condizione di visibilità, lente d’ingrandimento sull’essere. L’ospedale, il bisturi, l’esame del sangue non sono solo realtà esterne, ma figure allegoriche del rapporto tra soggetto e verità.

In un certo senso, Vitale compie un atto filosofico raro: restituisce al corpo, spesso rimosso nel pensiero occidentale, la sua funzione conoscitiva. Come nel Corpus di Jean-Luc Nancy, come nella “crisi dell’epidermide” descritta da Julia Kristeva, il corpo torna a essere la soglia tra interno ed esterno, tra l’io e il mondo, tra l’essere e il tempo. E quella soglia, nel libro, è attraversata attraverso le parole. Ma non parole liriche: parole essenziali, cliniche, scarne, come incisioni chirurgiche.

VI. Il testo come corpo: carne, cuciture, lesioni

C’è però anche il movimento inverso, e più radicale: non solo il corpo come testo, ma il testo come corpo. La scrittura stessa, in Cartella clinica, è presentata come una forma vivente, vulnerabile, soggetta a fratture, silenzi, pulsazioni. L’impaginazione del volume – la sua struttura franta, a salti, piena di vuoti – non è solo una scelta estetica, ma una dichiarazione ontologica: la scrittura non è intera perché l’essere non è intero.

Ogni frammento è come una ferita ricucita. Le cuciture non sono nascoste: si vedono, si sentono. Il lettore è messo di fronte non a un’opera finita, ma a un organismo narrativo in cura, in prognosi riservata. Non c’è guarigione, perché non c’è patologia da guarire: c’è solo un continuum di trasformazioni che attraversano carne e inchiostro insieme.

A livello simbolico, questa identificazione tra testo e corpo ci porta in una zona liminale, dove la scrittura si fa atto carnale. Si pensi a ciò che Roland Barthes chiamava la jouissance du texte, o alla concezione derridiana del segno come incisione: in entrambi i casi, la scrittura è qualcosa che attraversa il corpo, che lascia il segno. Serena Vitale sembra muoversi proprio in questa direzione: la sua cartella clinica non è un referto, è una pelle. E come tutte le pelli, è sensibile, esposta, soggetta al tempo.

Qui, in campo, ogni frase è una sutura, ogni parola una cellula riformulata, ogni paragrafo una zona d’ombra dove pulsa ancora il trauma. Il dolore, dunque, non è il contenuto del testo, ma la sua materia, il suo sangue nero. La scrittura non racconta il dolore: è dolore – ma nella forma trasfigurata e ordinata del pensiero.

VII. Malattia e soggettività: un’etica dell’esattezza

Cartella clinica pone una questione che non è solo letteraria ma etica: come si può restare soggetto quando il corpo ci tradisce? Come continuare a esistere quando ogni appiglio identitario (la forza, l’efficienza, la bellezza, la sessualità) viene meno? Serena Vitale risponde con un’etica dell’esattezza. Non abbellisce, non falsifica, non si difende con ironia né con disperazione: nomina tutto, e nella nominazione restituisce dignità all’umano.

Il suo gesto è tanto più radicale quanto più privo di orpelli. Non c’è retorica, non c’è nemmeno rivendicazione femminile, pur essendo il suo uno sguardo inconfondibilmente di donna. Anzi, è proprio nel rifiuto della spettacolarizzazione del dolore che il libro trova la sua forza. Vitale scrive contro il sentimentalismo, contro il narcisismo dell’autobiografia, contro l’indulgenza dell’autofiction. La sua è una scrittura in sottrazione, come se a ogni pagina si togliesse un velo, una protezione, un alibi.

E proprio questa spoliazione progressiva diventa, paradossalmente, un atto di verità. Non una verità assoluta, ma una verità incarnata. Non universale, ma condivisibile. Una verità che fa male, ma che salva: non perché guarisce, ma perché illumina.

In Cartella clinica, Serena Vitale non ci consegna un memoir, né una testimonianza, né un’opera narrativa tradizionale. Ci porge una lastra, un’immagine radiografica della propria vita vista attraverso il filtro del dolore, del tempo, della scrittura. Ma è una lastra che – come nelle vecchie radiografie su pellicola – bisogna avvicinare alla luce, inclinare, decifrare lentamente. Ogni ombra può essere un segno. Ogni bianco, una cancellatura.

E noi lettori, interpellati senza concessioni, diventiamo medici, analisti, amanti perduti. Leggiamo la sua cartella come se fosse anche la nostra. E forse lo è. Perché, alla fine, ogni corpo che scrive diventa corpo comune. E ogni dolore nominato ci chiama a una forma più profonda di ascolto.

VIII. Confronti necessari: Ernaux, Ginzburg, Barthes, Lonzi, ma anche Kristeva e Blanchot

L’opera di Serena Vitale si colloca, silenziosamente ma con chiarezza, in una costellazione letteraria e filosofica che ha avuto al centro il corpo come linguaggio e il linguaggio come incarnazione del trauma. Ma mentre molti scrittori e scrittrici hanno trattato questi temi nell’ottica del vissuto sociale o politico, Vitale lavora con uno scalpello interiore: il suo dolore è clinico, ma anche metafisico. In questa sezione metteremo il suo Cartella clinica in dialogo con altre voci che, pur con posture diverse, abitano la stessa zona di confine tra autobiografia, pensiero e rivelazione.

Annie Ernaux – La trascrizione radicale del reale

Il nome più prossimo è quello di Annie Ernaux, che ha fatto della propria vita – e del corpo come teatro sociale e intimo – la materia esclusiva della sua scrittura. Come Ernaux, anche Vitale adotta uno stile spoglio, documentario, impersonale, ma non c’è nella sua scrittura l’impeto politico della francese. Se Ernaux scrive “per vendetta e per giustizia”, Vitale scrive per registrare e per comprendere. Dove Ernaux aggredisce la realtà con la furia del je collettivo, Vitale si ritrae in una solitudine ontologica. Entrambe, però, fanno del corpo il punto d’origine della lingua, del tempo e della verità.

Natalia Ginzburg – La discrezione dell’irreparabile

Con Natalia Ginzburg condivide l’essenzialità e la potenza del non detto. La Ginzburg è la maestra dell’elusione, del dolore raccontato per sottrazione: una morte detta solo in una frase, un abbandono nominato come se fosse una distrazione. Anche Vitale, nel suo diario clinico dell’esistenza, pratica questa stessa reticenza piena di senso, questa scrittura che non mostra, ma lascia indovinare. Entrambe fanno della sobrietà un’etica, della lingua un codice asciutto per attraversare l’indicibile. In particolare, si ritrova in Vitale quell’eco della voce infantile che la Ginzburg coltivava nei suoi libri più spogli: una voce che osserva, che registra, ma non giudica.

Roland Barthes – Il lutto come lingua e corpo

Barthes, con il suo Journal de deuil, è forse la figura maschile più vicina a Vitale. Anche lui scrive a frammenti, a scatti di pensiero, dopo la morte della madre. Anche lui trasforma il dolore in una forma di attenzione assoluta. Entrambi non raccontano, ma osservano se stessi nel dolore, come da un punto esterno e interiore al tempo stesso. Ma se Barthes tende alla trasfigurazione teorica, Vitale resta dentro la carne del vissuto, senza mai astrarre. Il suo diario non è un esercizio semiotico, ma una geografia pulsante.

Carla Lonzi – Il corpo che rompe il discorso

Con Carla Lonzi, Vitale condivide un’altra cosa ancora: il rifiuto delle forme chiuse, dell’autorità narrativa, e soprattutto la centralità del corpo come luogo della rottura. Ma laddove Lonzi, con Autoritratto o Taci, anzi parla, trasforma la scrittura in gesto politico, Vitale la trasforma in gesto diagnostico. Entrambe però screditano il sapere razionale: Lonzi lo attacca frontalmente, Vitale lo mina dall’interno, mostrando come ogni sapere clinico sia insufficiente a contenere la verità dell’essere incarnato. Scrivono come se la voce potesse aprirsi non attraverso il sapere, ma attraverso l’esperienza del limite.

Julia Kristeva – La pelle come frontiera del soggetto

Un altro nome da evocare, meno letterario ma essenziale, è Julia Kristeva, che in opere come Pouvoirs de l’horreur o Soleil noir ha indagato il corpo nella depressione, l’identità nella perdita, la pelle come confine simbolico tra soggetto e Altro. Vitale, senza mai citare Kristeva, sembra incarnare una delle sue intuizioni fondamentali: che la scrittura nasce dal trauma, e che ogni trauma è una lesione nella lingua. Il suo testo è una pelle ferita che però scrive, che si fa membrana semantica tra ciò che è accaduto e ciò che può ancora essere detto.

Maurice Blanchot – La malattia come condizione dell’opera

Infine, nel sussurro più estremo della filosofia letteraria, il nome di Maurice Blanchot appare come una stella remota ma visibile. In Blanchot, la scrittura è l’esperienza del limite, dell’impossibilità di dire, dell’attraversamento del neutro. In Vitale non c’è l’astrazione teorica di Blanchot, ma c’è la consapevolezza che ogni frase è una soglia, ogni testo una zona d’ombra. La sua cartella è simile a quelle che Blanchot direbbe “senza firma”: perché appartengono all’esperienza di chi ha attraversato la soglia dell’io, e scrive da quel luogo altro.

Un libro per chi sa ascoltare le ombre

Serena Vitale, con Cartella clinica, ha scritto un’opera priva di certezze, ma colma di rigore e umanità. È un libro che non si propone di spiegare né di consolare: si limita a testimoniare l’esperienza del corpo che cambia, che cede, che resta. E in questo atto di fedeltà al dolore, alla solitudine e al silenzio, raggiunge una verità che la teoria spesso manca, e che solo la scrittura nuda può sfiorare.

Chi leggerà queste pagine con pazienza e attenzione vi troverà un laboratorio di esistenza, un esercizio di verità, una filosofia incarnata. Non ci sono risposte. Ma c’è un ritmo. E in quel ritmo – tra frammento e respiro – forse qualcosa si salva. Anche noi.