mercoledì 16 luglio 2025

Tutti scrivono! Ovvero: della fine gloriosa (e un po’ farsesca) della letteratura come atto sacro, e del desiderio oscuro di un ritorno al silenzio

Una lunga riflessione tragicomica sulla sovrapproduzione letteraria, su Marx, su Flaubert,
e sull’eventuale utilità di un campo di riso per ritrovare la poesia perduta.

C’è un momento, nella giornata, in cui tutto sembra immobile. Di solito è l’ora in cui il tè è ancora tiepido e le notifiche si sono fatte silenziose, o forse semplicemente uno si è stancato di rispondere a “commenti”, “mi piace”, “tag”. È allora che accade: apri un social qualunque — Instagram, Facebook, Threads, TikTok per i più audaci — e vieni investito da un’ondata di “ho scritto un libro”. Gente che pubblica, che autopubblica, che si fa pubblicare, che pubblica l’annuncio della pubblicazione, che pubblica la recensione all’annuncio della pubblicazione. È un’epidemia. Un’infezione globale.

Lo so, sembra una caricatura. Ma guarda meglio. Tutti scrivono, e lo fanno con quella serietà estenuata che un tempo era riservata solo ai mistici o agli epistolari degli amori infelici. E soprattutto, tutti sembrano aver trovato una casa editrice “che crede in loro” (spesso fondata il mese prima in una provincia sperduta da uno zio generoso con la carta intestata). “Un sogno che si avvera”, scrivono. E in effetti è proprio questo che inquieta: il sogno si è avverato. Il problema è che ora non ci svegliamo più.

Siamo davvero, come sospettava Marx (e ancor più Engels, con quella sua pericolosa tendenza a divertirsi troppo), nel pieno dell’utopia? Una società in cui ognuno può scrivere, pescare, allevare bestiame, filosofeggiare, e magari anche curare un blog settimanale in cui recensisce “libri che ti cambiano la vita”? Il sogno marxiano del superamento della divisione del lavoro — finalmente realizzato! — in forma di microeditoria e podcast?

Potrebbe sembrare di sì. Potrebbe. Ma a ben guardare, qualcosa non torna. Perché Marx — diciamolo — sognava la liberazione dal lavoro alienato, non l’alienazione trasformata in scrittura. E oggi scriviamo non perché siamo liberi, ma perché siamo obbligati a esserci. Ogni post è una prova di esistenza. Ogni presentazione è una piccola battaglia per la sopravvivenza simbolica. Ogni frase pubblicata è un SOS nella bottiglia digitale: “Eccomi. Esisto. Leggimi. Dammi forma”.

Ecco il cuore del problema: non scriviamo più per dire qualcosa, ma per non sparire.

E allora no, questa non è l’utopia. Questa è l’ipertrofia del desiderio. Il logoramento del sogno. Non siamo liberi di scrivere: siamo costretti. Dalla pressione, dalla comparazione costante, dal mercato, dai follower, dalla paura che il nostro silenzio venga letto come morte. La scrittura — che un tempo era un rischio, una lacerazione, una spinta interiore o un’apertura sul nulla — è diventata la forma definitiva dell’ansia da prestazione.

Così ci ritroviamo nel bel mezzo di una pornografia della scrittura. Una sovraesposizione oscena del verbo. Tutti mostrano le proprie parole, le sbandierano, le vendono, le serializzano, le spiegano, le difendono. La nudità dell’atto scrittorio, che un tempo esigeva pudore, oggi viene brandita come un cartellone pubblicitario luminoso: “Sono un autore! Venite, compratemi!”

Ma, come accade con ogni pornografia, il problema non è il corpo, ma la ripetizione. L’assuefazione. Il meccanismo che, reiterato, svuota di senso il gesto. Scrivere, oggi, è come farsi un selfie: un atto automatico, compulsivo, e drammaticamente reversibile. Il giorno dopo ne servirà un altro. E un altro ancora. E un altro libro, un altro post, un’altra foto alla copertina con la citazione “Non avrei mai pensato che…”

Ed è qui che Flaubert ci viene in soccorso, come un fratello maggiore appena uscito da un hangover di grammatica e bile. Bouvard e Pécuchet, quei due prodigiosi falliti, sono le nostre mascotte. Volevano sapere tutto, conoscere ogni disciplina, scrivere la sintesi del sapere umano, e invece naufragano nella propria ignoranza. Oggi non naufraghiamo più: galleggiamo. In una pozza calda di contenuti, di recensioni incrociate, di like, di autopresentazioni, in cui ognuno scrive e nessuno legge davvero. Anzi, se leggiamo, lo facciamo per scrivere una recensione più brillante di quella del vicino.

Siamo entrati nella Repubblica delle Lettere — sì — ma non quella delle accademie settecentesche. La nostra è una repubblica del contenuto, del gadget testuale, del racconto brandizzato. Non si scrive per elaborare un pensiero, ma per mostrare un'identità. Siamo autori senza opera. Produttori senza silenzio. Cantastorie senza storia.

E allora, nel centro di questa Babele zuccherosa e affaticata, nasce un desiderio proibito: quello di un ritorno brutale al silenzio. Un mondo in cui scrivere non è permesso. Un mondo in cui si lavora, si fatica, si tace. Dove il gesto della parola è sacro e quindi raro. Dove solo uno, forse due per secolo, hanno il diritto di pizzicare le corde della cetra. Un mondo in cui, magari, si vive chini tra le piantine di riso, e solo Catullo — solo lui — è autorizzato a cantare. Sopra le nostre schiene sudate. E lo fa con una tale perfezione che ci sentiamo — per un istante — riscattati.

Questa fantasia non è nostalgia, né reazione. È il sogno di un mondo che riconosce la rarefazione del gesto creativo. Dove la scrittura torna a essere rischio, privilegio, bisogno feroce. Non intrattenimento. Non curriculum. Non punto d’onore.

Perché il vero scandalo non è che tutti scrivano. Ma che tutti si aspettino che la loro scrittura conti. Che sia letta. Che sia pubblicata. Che sia condivisa. Il vero scandalo è la fine del sacrificio. Scrivere è diventato accessorio, decorazione, hobby terapeutico. E, di conseguenza, non fa più male. Ma se non fa male, non serve. Perché la vera scrittura è, sempre, un tradimento: dell’attesa, del lettore, del mondo. Non si scrive per essere accolti. Si scrive per dire ciò che non si vuole sentire.

E allora sì, è forse tempo di invocare il ritorno del riso. Del sudore. Del silenzio. Di un mondo in cui la parola è una frattura. Una ferita. Una deviazione dalla norma. Un gesto non redditizio. Un atto solitario.

E in quel mondo, anche solo una riga scritta, una sola, potrebbe valere tutto questo chiasso. Ma prima dobbiamo tacere. A lungo. Fino a dimenticare come si scrive. Perché solo allora, forse, potremo di nuovo scrivere davvero.

E non sarà più per esistere. Ma per sopravvivere.