giovedì 17 luglio 2025

"Chiudiamo le scuole di scrittura creativa!" di Alfio Squillaci: un pamphlet contro il culto della tecnica

Con Chiudiamo le scuole di scrittura creativa! (GOG Edizioni, 2020), Alfio Squillaci firma un pamphlet coraggioso, scomodo e volutamente provocatorio. Il titolo è già una dichiarazione di guerra, e non lascia adito a compromessi: la scrittura non si insegna, non si impara, e soprattutto non si confeziona. In un momento in cui l’offerta formativa di corsi di scrittura pullula tra università, fondazioni e iniziative private – dalla Scuola Holden ai master editoriali – Squillaci decide di opporsi frontalmente a questa industria del “racconto ben fatto”, con un’opera che è, prima di tutto, una difesa appassionata della letteratura come gesto anarchico, originario, e non riducibile a formula.

Il tono è quello di un pamphlet colto, denso di riferimenti filosofici, letterari e semiotici, ma attraversato da un’urgenza etica: Squillaci non scrive per analizzare, ma per opporsi. Lo fa con toni talvolta apocalittici, talvolta ironici, e sempre consapevoli del paradosso che la sua posizione comporta: argomentare contro la possibilità di insegnare la scrittura con uno scritto pensato per essere lettura critica. L'autore, formatosi tra filosofia e critica letteraria, recupera nomi come Roland Barthes, Maurice Blanchot, Paul Valéry, Italo Calvino, Gérard Genette, e li convoca non per creare un effetto di erudizione, ma per sostenere un’idea precisa: che la scrittura è un atto di creazione irripetibile, una “cesura”, un salto che non si pianifica. Ogni opera letteraria, se tale, nasce nel buio e non dalla luce del metodo.

Al centro del discorso di Squillaci sta l’attacco a quella che chiama la “catena di montaggio narrativa”. L’autore è acuto nell’individuare una crescente omologazione stilistica, che attribuisce non tanto a limiti culturali o editoriali, ma proprio all’idea – ormai radicata – che si possa “insegnare a scrivere” attraverso moduli predefiniti, consigli di struttura, archetipi, scalette, trucchi del mestiere. Il mondo della scrittura creativa viene descritto come una palestra dove si allena l’aspirante autore a compiacere il mercato, o almeno l’editor. E la domanda che Squillaci pone al lettore è feroce nella sua semplicità: davvero pensiamo che Kafka, Proust, Joyce o Gadda sarebbero passati indenni sotto le forche caudine di questi corsi? O piuttosto non sarebbero stati rispediti a casa con un “mostri, non racconti”, “usa troppi aggettivi”, “manca l’arco del personaggio”?

Questa polemica non è nuova, certo, ma Squillaci riesce a rinfrescarla grazie a una scrittura affilata e a un taglio chiaramente politico. Sì, perché ciò che si gioca in queste pagine non è solo la difesa della letteratura come arte, ma la denuncia di un più ampio sistema di addomesticamento del pensiero. La scuola di scrittura, dice l’autore, non si limita a suggerire strumenti: impone canoni, produce estetiche omologate, addestra alla prevedibilità. In altri termini: toglie alla scrittura la sua componente più pericolosa, quella forza irrazionale e immaginativa che può disturbare, confondere, spiazzare. La sua è una posizione nietzschiana: la scrittura non si insegna perché è, in sé, un atto dionisiaco. Chi pretende di regolarla, la uccide.

Naturalmente, il pamphlet non manca di lati discutibili. L’assolutezza della tesi, la volontà di estremizzare il dissenso, portano Squillaci a tralasciare le possibili sfumature: non tutte le scuole, infatti, puntano alla serialità né tutti i corsi hanno come obiettivo l’adesione al mercato. Vi sono esperienze (Mozzi, Trevi, Scarpa, Bortolotti) in cui l’insegnamento si configura più come dialogo aperto, come laboratorio critico che come trasmissione di formule. Ma l’autore sembra voler ignorare volutamente queste eccezioni: il suo sguardo si dirige contro l’industria culturale nella sua versione più mercificata, e in questo senso il bersaglio polemico resta ben centrato.

Dove il libro riesce davvero è nel riaccendere una riflessione che spesso si evita per prudenza o convenienza. Vale a dire: che cosa significa scrivere oggi? In un mondo dove l’accesso ai mezzi di produzione narrativa è più facile che mai – e dove la pubblicazione non è più necessariamente legata a un’idea di valore – quale è la posta in gioco del gesto letterario? Squillaci suggerisce che forse non si tratta di insegnare a scrivere, ma di imparare a leggere il mondo in modo nuovo, sovversivo. E che ogni vera scrittura nasce non da un programma, ma da un inciampo, da una ferita, da un fallimento.

Chiudiamo le scuole di scrittura creativa! è dunque un libro utile, non tanto per chi vuole smettere di frequentare corsi, quanto per chi desidera interrogarsi sul senso del proprio scrivere. È una voce minoritaria, certo, ma necessaria: quella del dubbio che si insinua tra le certezze dell’insegnamento, tra le regole dell’apprendimento, tra le gabbie della forma. Un testo da leggere non per trovare risposte, ma per disimparare a cercarle nei luoghi più comodi.