Vorrei che tu m’insegnassi, ti ho detto. Ma non ho avuto il coraggio di aggiungere che a insegnare sei sempre stato tu, anche quando non lo sapevi. Mi hai insegnato il silenzio delle attese, la vertigine dei ritorni, l’amarezza del ridicolo.
Questo treno arriva alla sua destinazione, come allora. Ti immagino sulla panchina, a sfogliare un tascabile, con le dita che tremano appena. Ma la tua immagine ha preso la patina del restauro: il tuo volto è una tela corrosa, i tuoi gesti una scena finta, rifatta.
Ti raggiungo, forse.
«Hai dormito?» mi chiedi, senza guardarmi.
«No. Ho pensato.»
«A cosa?»
«Che sei il mio restauro impossibile. Che corro verso qualcosa che non si ripara. Ma voglio esserci lo stesso.»
Mi sorridi. Sei più vecchio, sì. Anch’io lo sono. Senile amore, lo chiameresti, con quella tua ironia tenera e feroce. Io lo chiamo ancora vita. Anche adesso, in questo abbraccio incerto, mentre un treno parte e un altro arriva. Anche adesso, quando so che nessuno dei due imparerà più nulla, ma continueremo a chiederlo lo stesso.
Ti prendo il braccio.
«Allora, maestro. Da dove si comincia?»