sabato 12 luglio 2025

Treni in corsa (un racconto)

Il treno correva, e io con lui. La faccia incollata al vetro, gli occhi sbarrati, cercavo il tuo profilo nei paesaggi che non avrebbero mai potuto contenerti. Campi arsi, capannoni, ciminiere: nessuna traccia di te. Solo una corsa, come sempre, come da quando eri tornato nella mia vita con quella voce roca — «Hai ancora i dischi di Brel?» — e tutto aveva ricominciato a scivolarmi addosso con lo stesso freddo che avevamo addosso nell’inverno del ‘98.

Vorrei che tu m’insegnassi, ti ho detto. Ma non ho avuto il coraggio di aggiungere che a insegnare sei sempre stato tu, anche quando non lo sapevi. Mi hai insegnato il silenzio delle attese, la vertigine dei ritorni, l’amarezza del ridicolo.

Questo treno arriva alla sua destinazione, come allora. Ti immagino sulla panchina, a sfogliare un tascabile, con le dita che tremano appena. Ma la tua immagine ha preso la patina del restauro: il tuo volto è una tela corrosa, i tuoi gesti una scena finta, rifatta.

Ti raggiungo, forse.

«Hai dormito?» mi chiedi, senza guardarmi.

«No. Ho pensato.»

«A cosa?»

«Che sei il mio restauro impossibile. Che corro verso qualcosa che non si ripara. Ma voglio esserci lo stesso.»

Mi sorridi. Sei più vecchio, sì. Anch’io lo sono. Senile amore, lo chiameresti, con quella tua ironia tenera e feroce. Io lo chiamo ancora vita. Anche adesso, in questo abbraccio incerto, mentre un treno parte e un altro arriva. Anche adesso, quando so che nessuno dei due imparerà più nulla, ma continueremo a chiederlo lo stesso.

Ti prendo il braccio.

«Allora, maestro. Da dove si comincia?»