«La via più lunga è la più breve per tornare a casa»
Dublino, 16 giugno 1904. Il giorno si apre come un’incrinatura nello spazio-tempo: non accade nulla, se non la vita. Una città, un corpo, il rumore dei passi sulle pietre, il fruscio di una pagina voltata, l’odore grasso di un rognone alla brace. Eppure, dentro questa apparente stasi, si svolge un’odissea interiore. Perché il cammino che Leopold Bloom intraprende non è solo topografico, ma esistenziale. Non è verso Itaca che muove, ma verso un centro che si sfalda appena tentiamo di nominarlo: il centro del sé.
In Ulisse, ogni gesto, ogni movimento, ogni deviazione si fa carico di un peso simbolico che eccede la superficie narrativa. Camminare, ricordare, fantasticare, desiderare, mangiare, defecare: ogni azione si trasforma in interrogazione. Chi sono io? Chi è l’altro? Che cos’è il tempo? Che cosa vuol dire essere un marito, un padre, un uomo? Le domande scivolano via senza risposta, e l’identità si rivela, ancora una volta, come una costruzione in crisi. Non c’è origine né fine, solo un eterno ritorno del medesimo, che il testo joyciano celebra, frantuma, rifrange.
È in questo spazio sospeso che risuona la frase emblematica: «Pensi di fuggire, e invece ti scontri con te stesso». Non si tratta di un paradosso poetico, ma del cuore pulsante dell’opera: ogni fuga, ogni tentativo di elusione o rimozione, ogni stratagemma per evitare la propria ombra, fallisce. Il sé è un labirinto che non concede via di scampo. Più ci si allontana, più ci si ritrova. Più si cerca di dissimulare, più l’identità ritorna — mascherata, sì, ma riconoscibile nella sua insistenza. Il protagonista joyciano non sfugge alla sua storia: la abita, la calpesta, la riscrive ad ogni passo.
Nietzsche, nella sua Genealogia della morale e ancor più in Così parlò Zarathustra, aveva già intuito che l’individuo moderno è attraversato da tensioni inestricabili. «Bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante» — ma quel caos non è solo energia creativa: è frammentazione ontologica, è consapevolezza dell’incoerenza che ci costituisce. Il sé non è una sostanza unitaria, ma un campo di forze, un teatro in cui voci diverse recitano ruoli in conflitto. Joyce porta questa intuizione alle estreme conseguenze: il suo personaggio non evolve verso una verità, ma precipita in un flusso dove ogni certezza si dissolve.
Sartre, a distanza di qualche decennio, formulerà con brutale chiarezza una sentenza altrettanto spietata: «L’uomo è condannato a essere libero». In altri termini, l’identità non è un dato, ma un compito: siamo costretti a inventarci, e ogni scelta che facciamo definisce chi siamo — e, al tempo stesso, ciò che decidiamo di non essere. È qui che nasce la mauvaise foi, la malafede esistenziale: la tentazione di aderire a un’immagine fissa, a un ruolo rassicurante, pur di non affrontare l’abisso della libertà. Bloom, nel suo continuo slittamento da un ruolo all’altro — flâneur, padre simbolico di Stephen, marito tradito, ebreo errante, voyeur, doppio dell’Odisseo — incarna questa tensione tra l’illusione di coerenza e la verità della dispersione.
Nel suo camminare, Bloom non si redime, non si riscatta, non si purifica. Non è un eroe, e proprio per questo ci somiglia. I suoi errori, le sue ossessioni, le sue piccole epifanie sono i nostri. In lui riconosciamo quella parte di noi che desidera sottrarsi al peso dell’esistenza, ma è costretta a rientrarvi, come in un letto sfatto, come in una casa senza ordine, senza redenzione.
Questa idea di ritorno — ritorno dell’identico, ritorno dell’inconscio, ritorno del desiderio — trova nella psicoanalisi un alleato. Freud lo aveva detto con chiarezza: «Il rimosso ritorna». Non come tale, ma deformato, travestito, allucinato. Nella scrittura di Joyce, tutto è sogno, travestimento, simbolo: i pensieri si rincorrono in forma di monologo interiore, la realtà si confonde con la finzione, l’io si sdoppia, si triplica, si perde. Il testo stesso funziona come un inconscio, che stratifica, disfa, riformula. E l’identità è il sintomo che affiora sulla superficie, mai chiara, mai stabile.
Lacan radicalizza questo pensiero nel suo celebre stadio dello specchio: il soggetto si costituisce nello sguardo dell’altro, nella sua immagine riflessa, che appare come totalità, ma è in realtà la prima alienazione. L’io nasce nel momento in cui si vede come altro. Bloom è intrappolato in questo gioco speculare: si guarda negli occhi di chi lo giudica, si osserva attraverso la lente della moglie, del figlio morto, della città che lo attraversa senza mai accoglierlo. L’identità, dunque, non è mai possesso, ma distanza. Uno scarto irriducibile tra ciò che si è e ciò che si appare.
E quando Derrida, nel cuore della riflessione post-strutturalista, conia il termine différance, non fa che portare alle estreme conseguenze questa dinamica: nessun significato è mai presente, nessun io è mai pienamente se stesso. Ogni identità è differita, ogni parola rinvia ad un’altra, ogni io si costruisce nel differimento. Così, nella scrittura di Joyce, il protagonista tenta di dirsi e si perde nel flusso: un flusso che non si arresta, che non giunge mai a destinazione. Perché la destinazione è la scomparsa dell’origine.
Da qui, la straordinaria potenza simbolica della frase «La via più lunga è la più breve per tornare a casa». Tornare a casa non è un atto fisico, ma un attraversamento psichico. La casa è ciò da cui si parte e a cui si tende, ma che si modifica mentre la si percorre. Non si torna mai allo stesso luogo, perché nel frattempo si è cambiati. In questo, Joyce è profondamente moderno: il ritorno è sempre una reinvenzione, un trauma che diventa racconto, un'assenza che chiede d'essere colmata.
La frase latina per aspera ad astra — «attraverso le difficoltà fino alle stelle» — ci rammenta che la conoscenza del sé non è un dono, ma una lotta. Non si conquista con la ragione, ma col desiderio. E non c’è desiderio che non sia segnato da mancanza, da vuoto, da lacerazione. Joyce, in questo, è anche un autore tragico: ci mostra la disarmonia profonda che struttura ogni tentativo di conoscenza. Nulla si risolve. Nulla si salva. Ma tutto risuona, tutto ritorna, come un refrain che ci attraversa anche quando ci illudiamo di averlo dimenticato.
Nel finale del romanzo, il discorso passa a Molly, la moglie, la donna che è rimasta, ma che è anche altrove. Il suo monologo è un fiume senza punteggiatura, una marea di memorie, desideri, assensi. È il corpo che parla, è l’inconscio che canta. E quel sì, ripetuto fino all’ossessione, è forse la chiave finale: dire sì alla vita, anche quando è confusa, imperfetta, frammentaria. Dire sì al ritorno, anche quando porta con sé dolore, ambiguità, rinuncia.
Come scrive Virgilio in un verso scolpito nella memoria dell’Occidente: «Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt» — «Ci sono lacrime nelle cose, e le sventure dei mortali toccano la mente». Non si dà esistenza senza perdita. Ma è proprio nel riconoscere questa verità che l’uomo si scopre, non sovrano, ma vulnerabile, non dio, ma creatura. E in questa vulnerabilità, in questo riconoscimento della propria esposizione, forse risiede la più autentica forma di libertà.
Ulisse, allora, non ci guida verso una verità stabile, ma ci accompagna nel cuore stesso del dubbio. Insegna che ogni identità è attraversamento, ogni fuga è ritorno, ogni “sé” è già molteplice. E che forse, solo perdendosi, si può sperare — senza garanzia alcuna — di ritrovare una casa.
Una casa che non è luogo, ma domanda. Una casa che si dice nel tempo e nell’errore. Una casa che ci somiglia.