sabato 5 luglio 2025

Luce nell’abisso: il Diavolo tra conoscenza e libertà

"Ascensore per l’inferno" (titolo originale: Angel Heart, 1987) è un film diretto da Alan Parker, liberamente tratto dal romanzo Falling Angel di William Hjortsberg. Un noir gotico, plumbeo e infernale, che fonde l’investigazione privata con l’occultismo, il jazz con il sangue, la New Orleans più voodoo con l’America più corrotta dell’anima. Il titolo italiano, pur suggestivo, tradisce la sottigliezza dell’originale: Angel Heart contiene già il cuore della rivelazione.

Al centro, un’indimenticabile performance di Robert De Niro nei panni di Louis Cyphre — nome che, letto ad alta voce, suona come Lucifer. De Niro appare gelido, con lunghi capelli neri, barba demoniaca, mani curate e un'ossessione inquietante per le uova sode (simbolo di anima secondo certe tradizioni esoteriche). La sua mano, bianca, affusolata, si muove lenta, come un guanto aristocratico calato sul destino del protagonista. È una mano che firma patti. Che tiene l’orologio del tempo. Che schiaccia il guscio, e ingoia l’essenza.

Il protagonista, Harry Angel (Mickey Rourke), è un detective disilluso ingaggiato da Cyphre per trovare un certo Johnny Favorite. Ma la discesa di Harry è in realtà un viaggio all’inferno dentro se stesso, in cui l’indagine si trasforma in una catabasi psichica e spirituale. Man mano che l’indagine avanza, emergono sangue, sesso, magia nera, e un'identità perduta — letteralmente venduta.

Il finale, agghiacciante e simbolicamente perfetto, rivela che la vittima e il carnefice coincidono. L’“angelo” si scopre demone. La memoria ritorna come una maledizione. E l’ascensore per l’inferno è già partito, lentamente, mentre De Niro guarda, onnisciente, con quella sua mano del Diavolo a guidare il tutto.

Il simbolismo in Angel Heart (1987), soprattutto nelle scene con Louis Cyphre (Robert De Niro), è così stratificato e sottile che merita una lente d’ingrandimento mitico-religiosa, psicanalitica e alchemica. Il centro magnetico di questo simbolismo è proprio la mano del Diavolo, e ciò che essa fa: rompe un uovo, lo mangia, osserva. Nulla è casuale. Ogni gesto, ogni oggetto, è carico di significato.


La mano del Diavolo

La mano di De Niro è l’emblema visivo del potere: è controllata, elegante, lenta — mai impulsiva. Una mano che non colpisce, ma firma patti. È la mano dell'intelletto luciferino, quella che regge la bilancia del destino con sadica pazienza.

Visivamente, è contrapposta a quella di Harry Angel (Mickey Rourke), sempre sporca, nervosa, violenta. Se quella di Angel è la mano dell’uomo, preda del caos e della carne, quella di Louis Cyphre è la mano dell’angelo caduto, che orchestra ogni cosa senza mai sporcarsi davvero.

Quando Cyphre rompe l’uovo, lo fa con la mano destra: la mano destra del Diavolo, parodia della destra di Dio. L’atto di mangiare un uovo — apparentemente banale — è la chiave.


L'uovo: simbolo dell’anima e della creazione

Cyphre dice, testualmente:

“Nelle tradizioni orientali, l’uovo simboleggia l’anima.”

E subito lo rompe.
Lo beve. Lo ingloba.

L’uovo è l’archetipo della vita potenziale, dell’essere non ancora dischiuso, ma anche dell’anima contenuta nel corpo. Quando De Niro lo consuma, lo divora in un gesto cannibale e sacramentale: è un rito demoniaco. Sta consumando l’anima di Harry Angel — o meglio, di Johnny Favorite, il suo vero io.

Ma anche:

  • L’uovo come mondo primordiale che si spezza (l’innocenza perduta).
  • L’uovo come promessa di rinascita negata.
  • L’uovo come anima venduta, ormai già nelle mani sbagliate.

Il simbolismo alchemico

Nel linguaggio alchemico, l’uovo (l’“ovum philosophicum”) è il contenitore del processo di trasmutazione interiore. Rompere l’uovo equivale a rompere il segreto — o ad anticipare la trasformazione. Ma qui non c’è oro alla fine: c’è condanna. L’elevazione fallisce. Il processo si perverte.

E la mano del Diavolo, ancora una volta, è quella che orchestra. Una mano ferma, che non cerca più. Ha già vinto.


Il gesto finale

Quando Cyphre guarda Harry salire sull’ascensore per l’inferno, non c’è più bisogno di muovere le dita. Il patto è già stato consumato. L’uovo è stato mangiato. Il corpo è stato usato. L’anima è restituita. La mano del Diavolo, come in un quadro manierista, rimane a margine: presente, ma non toccante. È la suprema eleganza dell’orrore.


Ora, una lettura gnostica di Angel Heart trasforma radicalmente l’impianto noir del film: non più un semplice thriller esoterico, ma una tragedia metafisica, in cui l’uomo è una scintilla divina caduta nella materia, dimentico della propria origine, braccato non solo dal Male — ma da una conoscenza che lo distrugge. In questa luce, l’intero film diventa una allegoria del ritorno impossibile al Pleroma, con Louis Cyphre nei panni del Demiurgo ingannatore, e Harry Angel come l’anima gnostica perduta.


Il viaggio gnostico dell’anima caduta

La gnosi non è una fede, ma una conoscenza salvifica: il riconoscimento di una verità occultata, che coincide con la natura divina dell’uomo e la prigionia del mondo materiale, creato non da un Dio buono ma da un’entità minore — spesso crudele — il Demiurgo.

Nel film, Harry Angel crede di essere un uomo che cerca qualcun altro (Johnny Favorite), ma è in realtà un’anima che cerca se stessa, senza sapere che quella stessa identità è la propria condanna. Non c’è redenzione, solo riconoscimento del peccato originario: non aver saputo di essere schiavo.

Come nella cosmologia gnostica, l’anima è caduta nel mondo e ha dimenticato se stessa. Il Male non è fuori, ma interiorizzato, sedimentato, digerito come l’uovo da Louis Cyphre.


Louis Cyphre come Demiurgo

Robert De Niro incarna una delle più efficaci rappresentazioni del Demiurgo cinematografico. Non urla, non punisce apertamente: offre, chiede, osserva.
Il suo nome — Louis Cyphre — è un gioco trasparente su Lucifer, ma nel contesto gnostico è più vicino a Yaldabaoth, il falso dio che tiene l’anima prigioniera nel cosmo materiale.

  • Mangia l’uovo, simbolo dell’anima, come se ne fosse proprietario.
  • Fa firmare contratti — non con il sangue, ma con l’oblio.
  • Vive nel tempo lineare, lo manipola, lo rende circolare: la vita è una trappola che riconduce sempre al punto d’origine, alla colpa.

Nella logica gnostica, Louis Cyphre non è nemmeno del tutto malvagio: fa il suo mestiere, come il Demiurgo: crea il mondo, imprigiona le anime, custodisce il segreto.


Harry Angel come Pneuma Ignorante

Harry è il classico Pneuma (spirito) caduto, uno psichico che crede di essere libero, ma è invece inconsapevole delle forze che lo muovono. Ogni passo che compie verso la verità non lo libera — lo affossa.
Il gnosticismo rigetta l’idea di redenzione tramite espiazione o confessione: solo la gnosi libera, ma qui — nel film — la gnosi arriva troppo tardi.

Harry ricorda, ma non può salvarsi. Il passato si rivela, ma non guarisce.
La memoria, che nello gnosticismo è potenzialmente il risveglio divino, in Angel Heart è la porta dell’inferno.

Non c’è salvezza. La conoscenza arriva, ma non redime.
L’ascensore scende, non sale. La gnosi, qui, è solo la conferma della condanna.


Il mondo come illusione oscura

Lo scenario del film — dalla New York grigia e corrotta alla New Orleans dei riti voodoo — è un perfetto plesso arcontico: un mondo dominato da forze oscure, da intermediari del Male (gli Arconti gnostici), dove nessuno è chi dice di essere, e ogni rito è un inganno.

La spiritualità che emerge (tarocchi, voodoo, possessioni, sacrifici) è sempre una spiritualità deformata, manipolata, non salvifica. Non c’è nessun Cristo gnostico che venga a risvegliare Harry. Solo Cyphre, che gli restituisce la verità come una lama.


Angel Heart è un noir gnostico travestito da thriller occulto.

L’uomo crede di cercare il Male fuori, ma lo scopre dentro di sé.
La verità non lo libera, ma lo distrugge.

E Louis Cyphre, il Diavolo-Demiurgo, non ride.
Guarda.
E tiene la mano sulla maniglia dell’ascensore. Che scende.


Ma espandiamo la visione gnostica di Angel Heart intrecciandola con tre figure letterarie fondamentali per comprendere la moderna mitologia del Male: Lucifero in Paradise Lost di Milton, Satana in Borges, e il Lucifer di William Blake. Alla fine, torneremo a Louis Cyphre, figura silenziosa e devastante, per ridefinirlo come archetipo gnostico del cinema contemporaneo: il Demiurgo divenuto gentiluomo.


I. Lucifero in Milton: il Male come libertà illusoria

Nel Paradise Lost (1667), Lucifero è l’angelo che si ribella all’ordine imposto da Dio e cade, trasformandosi in Satana. Il suo motto, "Better to reign in Hell than serve in Heaven", è un’eco tragica della volontà di potenza: l’orgoglio che scinde, che produce il mondo materiale come carcere della grazia.

Lucifero è nobile, titanico, necessario: senza di lui, non c’è caduta — e quindi non c’è storia. Ma il suo regno è un'illusione: crede di aver scelto la libertà, ma è ingabbiato nel tempo, nel dolore, nella materia.

Harry Angel è in tutto simile: pensa di indagare, di agire liberamente, ma in realtà ha solo rimosso. La sua ribellione (fuggire Johnny Favorite) è una menzogna narrativa dell’Io.

E Louis Cyphre, come il Dio di Milton, non è il vero Dio, ma colui che tiene in equilibrio la farsa cosmica. Non giudica: consegna. Non redime: espone. È superiore non per amore, ma per infrastruttura ontologica.


II. Il Satana di Borges: il bibliotecario del Male

In Borges, Satana è spesso una figura di conoscenza, un essere lucido, stanco, che sa troppo e quindi non crede più. In racconti come Tre versioni di Giuda o La biblioteca di Babele, il Male è un meccanismo logico, un effetto collaterale dell’infinito. Dio può farsi carne… ma anche peccato.

Nel racconto borgesiano, Satana è spesso colui che rivela l’orrore dell’ordine cosmico stesso: il paradosso che il Male possa nascere dal Bene, che il sacrificio divino sia una trappola logica, che la verità non sia redentrice ma orribilmente coerente.

Louis Cyphre è borgesiano in questo: non agisce come un cattivo, ma come curatore d’archivio dell’universo. Ti mostra il documento (il contratto firmato), ti fa scoprire chi sei (Johnny Favorite), e ti lascia affondare nella coerenza delle cose.

Non crea: interpreta. Come un demiurgo in guanti neri.


III. Il Lucifero di Blake: il Male come potenza immaginativa

William Blake non vede Lucifero come una figura puramente malvagia. Anzi, nell’immaginario di The Marriage of Heaven and Hell, il Diavolo è la forza creativa, ribelle, erotica, che rompe l’ordine morto del razionalismo. Per Blake, l’energia è sacra:

“Energy is Eternal Delight.”

Lucifero diventa, per certi versi, la divinità vera — mentre il Dio della religione istituzionale è l’Arconte, il censore, il carceriere della visione.

Eppure, in Angel Heart, tutto ciò è sovvertito con raffinata ambiguità. Louis Cyphre ha la maschera di Blake, ma l’anima del Demiurgo gnostico: non crea, non ama, non perdona il desiderio. Non c’è energia da liberare: solo identità da seppellire.

Johnny Favorite ha fatto un patto per salire nella musica, nella fama, nell’erotismo. Ma è stato solo assorbito. Consumare l’anima altrui per sopravvivere è l’antitesi del motto blakeano.
Louis Cyphre è il falso Lucifero: non è colui che rompe l’ordine, ma colui che lo fa sembrare libertà.


IV. Louis Cyphre come archetipo gnostico del cinema contemporaneo

Louis Cyphre (De Niro) inaugura una nuova genealogia di figure semi-divine, manipolative, perfettamente educate: gli arconti che non sembrano cattivi, ma che incarnano l’etica cosmica del “già deciso”.

Nel cinema contemporaneo, Cyphre ha avuto figli illustri:

  • John Milton (Al Pacino) in L’avvocato del diavolo (1997): è il “padre” che offre potere e ti seduce con la libertà.
  • Mr. Scratch in Shortcut to Happiness: sempre elegante, sempre già in possesso della tua firma.
  • Javier Bardem in Mother! (Aronofsky): dio, artista, ma soprattutto demiurgo che consuma l’altro per creare.

Louis Cyphre è il primo di questa linea perché non combatte: sa già. È un diavolo gnostico: non ha bisogno del peccato, ma del riconoscimento. È il sacerdote del trauma rimosso. E come ogni Demiurgo, ti restituisce il tuo volto — perché tu non possa più fuggirlo.


L’orrore della rivelazione

Louis Cyphre si muove tra Milton, Borges e Blake come ombra definitiva della loro eredità:

  • Come Lucifero di Milton, è già caduto — e vuole farti cadere con sé.
  • Come il Satana di Borges, è conoscenza che annienta.
  • Come il Lucifero di Blake, ha perso ogni estasi, ed è rimasto solo a interpretare il Male come forma vuota.

Nel suo gesto più piccolo — mangiare un uovo, guardare, aspettare — c’è tutta la violenza del Vero.
La gnosi, in lui, non salva. Conclude.


Procediamo con due nuove articolazioni del discorso:


I. Angel Heart e Rosemary’s Baby: due matrimoni con il Male

1. Identità e maternità: le due forme del possesso

Rosemary’s Baby (1968, Roman Polanski) racconta il viaggio di una donna ingenua e fragile (Rosemary) dentro un incubo che non riconosce come tale fino alla fine.
Angel Heart (1987, Alan Parker) fa lo stesso con un uomo (Harry Angel) che, al contrario, è già parte dell’incubo — ma lo ha dimenticato.

In entrambi i film, il protagonista è vittima di una falsificazione totale della realtà. Rosemary crede di scegliere, ma tutto è già predisposto (dall’appartamento ai vicini). Harry Angel indaga, ma la vittima da trovare è lui stesso.

Il Diavolo, in entrambi, non ha bisogno di sedurre: gli basta produrre realtà.

2. Il corpo come soglia

Nel film di Polanski, il Diavolo passa attraverso il corpo femminile, che viene fecondato — ma anche stuprato nel sonno, alienato, medicalizzato. Il corpo di Rosemary diventa strumento sacrificale per una progenie infernale, ma sotto le vesti dell'amore e della medicina.

In Angel Heart, il corpo maschile è invece veicolo di occultamento: Johnny Favorite ruba l’identità di un altro uomo, e con essa crea una nuova “persona”, fino a quando questa maschera (Harry Angel) non si sfalda nel sangue.

Nel primo caso il Male entra, nel secondo è già dentro — ma in entrambi i casi:
la carne mente.

3. Il Diavolo come architetto narrativo

Roman Castevet e Louis Cyphre sono parenti stretti. Non demoni ringhianti, ma figure impeccabili, cortesi, portatrici di “ordine”, che parlano poco e dirigono molto. Sono sceneggiatori nascosti della storia: la loro azione è stata già fatta, prima che il film cominciasse.

L’orrore è quindi gnostico: non viene dal caos, ma dall’architettura perfetta e definitiva della realtà. Non è più un’epifania del Male, ma una epistemologia dell’inganno.


II. Simbolismo del sangue, del contratto e della perdita d’identità

nel cinema dell’“Anima venduta”

Nel cinema che tratta dell’anima venduta, tre motivi simbolici ritornano con forza quasi liturgica: sangue, contratto e identità. Non sono semplici “segni”, ma trasmutazioni alchemiche dell’io cinematografico.

1. Il sangue: la firma sacrificale

Il sangue è patto primordiale, memoria e condanna. In Angel Heart, scorre come marea oscura in ogni scena chiave: l’omicidio della figlia, il cuore mangiato, la perdita di controllo.
È un sigillo: ogni volta che appare, qualcosa viene “ricordato”. Come nella Bibbia:

“Il sangue grida dalla terra” (Genesi, 4:10)

Nel cinema dell’anima venduta, il sangue non è mai semplicemente violenza: è documento.

Anche in film come The Ninth Gate (Polanski) o Drag Me to Hell (Sam Raimi), il sangue suggella il passaggio da umano a altro, da spettatore a offerto sacrificale.

2. Il contratto: l’atto notarile del destino

Il Diavolo non agisce mai senza un contratto: in questo è moderno, borghese, post-feudale. Il contratto è l’illusione della scelta, la forma razionale del dominio spirituale.

In Angel Heart, il contratto è sottinteso: la firma è già stata data, ma dimenticata. Non è più il classico patto faustiano ex ante, ma un fatto compiuto. Questo introduce una nuova idea:

la condanna non è scelta, ma rimozione.

Il contratto è anche metafora del cinema stesso: tu “firmi” con la sospensione dell’incredulità. Guardi, e quindi aderisci. Come Harry Angel: sei dentro e non lo sai.

3. La perdita d’identità: il cinema come ipnosi

La cosa più devastante, in Angel Heart, non è il Diavolo, ma l’impossibilità dell’io di conoscere se stesso.
La perdita d’identità è il vero danno collaterale del patto: si crede di guadagnare qualcosa (successo, potere, immortalità), ma si perde tutto ciò che definisce l’essere.

Questo è il passaggio centrale anche in film come:

  • The Machinist (2004): l’identità si dissolve per rimozione di un trauma.
  • Fight Club: il Sé si scinde, e uno dei due prende il sopravvento.
  • Eyes Wide Shut: il protagonista è escluso perché non capisce il codice della realtà.

In tutti questi casi, il cinema si fa metafora gnostica della coscienza scissa: tu guardi te stesso da fuori, ma sei troppo immerso per capirlo.


Il cinema come rituale gnostico

Il cinema dell’anima venduta — da Angel Heart a Rosemary’s Baby, da Faust a The VVitch — non racconta solo il Male.
Rappresenta la perdita della posizione del soggetto.

L’uomo (o la donna) crede di poter indagare, scegliere, comprendere. Ma l’universo è già stato scritto da un architetto invisibile.
E quell’architetto — spesso — è il Diavolo.

O, come Louis Cyphre,
un’entità silenziosa che ti mostra uno specchio, mentre ti sorride.


Qui un'estensione in due movimenti:

  1. Il blues come medium di dannazione, ovvero il Crossroad Pact e il mito oscuro di Robert Johnson: un’archeologia sonora dell’anima venduta.

  2. Specchi e superfici riflettenti nel cinema gnostico, come soglie dell’io smarrito, dispositivi di trasmigrazione, o portali dell’inganno.


I. Il blues come medium di dannazione

Il patto al crocevia: Robert Johnson, Crossroad Blues, Angel Heart

La leggenda narra che Robert Johnson, chitarrista errante del Delta, vendette la propria anima al Diavolo a un incrocio stradale (probabilmente a Clarksdale, Mississippi) in cambio della padronanza assoluta dello strumento.
Fu proprio lui a scrivere Crossroad Blues (1936), canzone che — come una confessione in codice — mescola paura, desiderio e condanna:

I went down to the crossroads
fell down on my knees...

1. Il crocevia: simbolo dell’intersezione tra mondi

Nella tradizione afroamericana, il crocevia (crossroad) non è solo luogo fisico: è porta tra i piani del reale.
Chi si ferma lì, di notte, può incontrare Legba, o il Diavolo stesso, e stipulare un patto che cambia tutto.

In Angel Heart, la musica blues è il codice che disvela l’orrore nascosto. I suoni di chitarra, le urla, i lamenti che riempiono il soundscape del film sono risonanze rituali: annunciano che qualcosa è già stato dato, e non può essere ripreso.

La presenza di Toots Sweet, il musicista che “ricorda troppo”, è centrale: la musica fa riaffiorare la verità. La memoria, in questo universo, è blues. Il ritmo diventa rituale involontario, evocazione senza scampo.

2. La musica come codice mnestico e infernale

Nel film, la musica è più potente delle parole:

  • evoca (il passato, i crimini, la vera identità)
  • struttura (l’inquadratura, la tensione, la vertigine)
  • possiede (come nel voodoo, o nei sabba muti del jazz più oscuro)

Il blues non è solo “musica triste”: è una grammatica di evocazione, perdita e colpa.
Johnson, come Johnny Favorite, come Louis Cyphre, è un personaggio che ha perso l’anima in cambio della voce.

“He made a record, and it cost him everything.”


II. Specchi e superfici riflettenti nel cinema gnostico

Il riflesso come prova, come menzogna, come abisso

Lo specchio, nella tradizione esoterica, è soglia tra mondo visibile e invisibile, strumento di doppiezza ma anche verità ultima. Non riflette ciò che sei, ma ciò che non puoi più evitare di vedere.

Nel cinema gnostico, da Angel Heart a The Matrix, lo specchio è testimone del trauma: lo attraversi solo quando l’identità vacilla.

1. Il riflesso non mente — ma nessuno lo guarda a lungo

In Angel Heart, non c’è uno specchio classico, ma tutto il film è costruito come una stanza di rifrazioni: ogni personaggio è doppio, ogni informazione tardiva, ogni gesto già fatto. L’inconscio rimosso è la superficie riflettente definitiva.

Negli specchi del cinema gnostico:

  • in Black Swan, il riflesso vive una vita propria, staccandosi e aggredendo.
  • in The Matrix, lo specchio si liquefa e si fonde con l’eroe, trasformandolo.
  • in Enemy di Villeneuve, è il ragno a fissarti da dietro lo specchio, e tu sei già intrappolato nella ragnatela.

Lo specchio non ti mostra mai il presente: mostra la verità futura o la colpa passata.

2. Lo specchio come giudizio finale

Nel linguaggio gnostico, lo specchio è kenoma, vuoto. Quando ti specchi, non vedi la forma, ma il baratro della tua inconsistenza ontologica.
Louis Cyphre, con i suoi occhi taglienti e la sua compostezza aristocratica, è uno specchio umano: ogni parola è un ritorno del rimosso.

“Tu sei Johnny Favorite.”

In quel momento, non c’è immagine: il volto di Harry cade nel buio. Il vero specchio è l’assenza di riflesso:

sei un’ombra che ha rubato una luce, ma la luce non era tua.


Crocevia e specchi, suoni e riflessi

La musica infernale e lo specchio gnostico sono due forme parallele della stessa rivelazione:
non sei chi credi. Non hai scelto. Non c’è salvezza.

Ma c’è una possibilità, forse l’ultima:
ascoltare il blues della propria dannazione e riconoscersi nel riflesso che sanguina.


Passiamo dunque a un raffronto comparato tra Angel Heart e Faust, nelle sue due declinazioni principali: quella letteraria di Goethe e quella filmica di Murnau, capolavoro del muto espressionista.
Due linguaggi — la parola filosofica e l’immagine visionaria — che si rispecchiano nel noir metafisico di Alan Parker, completando la geometria esoterica che abbiamo finora tracciato.


I. Il patto e l’identità

Faust di Goethe (1808–1832)

Goethe propone un Faust diviso, colto, inquieto, ma inizialmente puro: la sua anima non è corrotta, è insoddisfatta. Il suo patto con Mefistofele non è un cedimento morale ma una sfida conoscitiva: “Voglio conoscere tutto, e se il piacere mi basterà, allora portami via”.

Nel primo Faust:

«Se all’attimo potrò dire: Fermati, sei bello!»

Il dannato è chi cede all’illusione e si ferma nel godimento. È la stasi a condannare. Ma Goethe redime Faust: non è la dannazione eterna, ma una salvezza post-mortem per grazia femminile (Gretchen).

Angel Heart invece è la versione perversa del mito:

  • Johnny Favorite/Harry Angel non firma il patto coscientemente, ma lo vive nascosto nella carne.
  • La sua dannazione non è evitabile, perché ha dimenticato (o scelto di dimenticare) ciò che ha fatto.
  • Non cerca conoscenza, ma occultamento. È un Faust all’incontrario: vende l’anima per dimenticare, non per sapere.

“Io non sono Harry… io… io sono…”

Il momento della rivelazione è anti-goethiano: non vi è redenzione, né amore, né trascendenza.


II. Faust di Murnau (1926): la potenza dell’immagine come destino

Murnau, nel suo Faust, costruisce un mondo di ombre e nebbia, dove il patto è visivamente espresso da una lotta cosmica tra Dio e il Diavolo, scommessa primigenia che anticipa quella giobbeica.

  • Il Faust di Murnau accetta il patto per salvare il villaggio dalla peste, ma finisce inghiottito dalla vertigine del desiderio.
  • L’amore per Margherita (Gretchen) è la sua ultima ancora: ma il prezzo pagato è l’anima.
  • Tuttavia, Murnau — come Goethe — suggerisce una redenzione finale per amore.

In Angel Heart, al contrario:

  • La peste è interiore: la memoria repressa, la colpa occultata, l'identità deformata.
  • L’amore non salva: Epiphany, figlia e amante, è solo vittima e sacramento sacrilego.
  • Il Diavolo vince, ma non per forza: vince perché l’uomo ha scelto l’oblio della verità.

III. Mefistofele e Louis Cyphre: due volti dello stesso inganno

Mefistofele è affabile, ironico, affilato. È un trickster, non un mostro. Ma in Goethe, è vincolato dal patto: non può violare la libertà di Faust.

Louis Cyphre invece è l’evoluzione sadica e moderna di Mefistofele:

  • non rispetta la forma del patto, ma la perverte;
  • non offre conoscenza, ma rimozione;
  • non si propone, si impone — e attende, con glaciale compiacimento, che la verità da sempre negata riemerga.

Il Diavolo in Angel Heart non tenta, rivendica. Non seduce, svela.

“We are what we are… and we do what we do.”
(Louis Cyphre, mentre mangia un uovo come fosse un’ostia invertita.)


IV. Il Faust in frantumi

Se Faust di Goethe è la tragedia dell’uomo che cerca troppo,
e Faust di Murnau è l’epopea dell’uomo che cade ma può redimersi,
allora Angel Heart è la parabola terminale di un uomo che non ha mai smesso di cadere,
e che non può essere salvato perché non si ricorda più di essere stato umano.

Nel mondo di Parker, non esiste più la salvezza,
non perché Dio sia assente,
ma perché l’anima è diventata un documento firmato in sangue e dimenticato in un cassetto.


E ora un doppio confronto tra Angel Heart e due romanzi cardinali della letteratura sul patto col demoniaco: Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde e Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Due declinazioni diversissime, ma entrambe spiritualmente affini all’universo cupo e gnostico tracciato da Alan Parker nel film del 1987.


I. Angel Heart e Il ritratto di Dorian Gray

Il parallelismo più evidente è quello della doppia identità occultata, ma andiamo oltre l’ovvio: in entrambi i testi abbiamo un’idea di patto che si consuma nel non detto, nel silenzio dell’anima che acconsente senza firmare.

Dorian Gray:

  • vende l’anima in modo quasi involontario, attraverso un desiderio estetico: che la sua bellezza resti eterna, e che il ritratto invecchi al posto suo.
  • Il quadro, come lo specchio in Angel Heart, è il portale dell’anima: ciò che Harry Angel rimuove, Dorian lo contempla — con orrore crescente — nel proprio simulacro.
  • Ma entrambi sono prigionieri di una finzione costruita da sé stessi: Harry come Johnny Favorite, Dorian come l’effigie ritratta.

“Each man kills the thing he loves.”
(Oscar Wilde, ma potrebbe dirlo anche Louis Cyphre.)

Nel momento in cui entrambi si guardano davvero, muoiono: Harry allo specchio, Dorian distruggendo il ritratto. In entrambi i casi, l’Io occultato esige sacrificio — e lo ottiene.


II. Angel Heart e Il maestro e Margherita

Qui il confronto si fa più sottile, ironico, metafisico.

Se Angel Heart è il racconto tragico di un uomo inconsapevole trascinato all’inferno da sé stesso, Il maestro e Margherita è una favola luciferina, in cui Satana (Woland) si fa giudice occulto dell’ipocrisia e della menzogna borghese.

Punti di contatto:

  • In entrambi i casi, Satana non corrompe: rivela.
    Louis Cyphre e Woland non mentono mai. Aspettano che la verità si manifesti.

“Tutto andrà come deve andare, e nessuno potrà impedirlo.”
(Il maestro e Margherita)

  • Woland, come Cyphre, sceglie le sue vittime con precisione chirurgica: non gli innocenti, ma i falsi, i vili, i vanitosi, i corrotti.
  • Ma in Bulgakov c’è misericordia, salvezza per amore. Margherita salva il Maestro e ottiene la pace.
    In Angel Heart, Epiphany muore — anzi, viene sacrificata inconsapevolmente da chi la ama.

Il Diavolo bulgakoviano è ambiguo, talvolta persino giusto.
Il Diavolo di Parker è gelido, legale, notarile: un burocrate dell’inferno, un avvocato dell’anima che aspetta il pagamento finale.


III. Identità, oblio e memoria come condanna

Tanto in Wilde quanto in Parker, la perdita di sé è centrale:

  • Dorian uccide ciò che ha fatto di sé un mostro, solo per scoprire che quella era la sua vera immagine.
  • Harry Angel si è rifatto una vita, ha dimenticato la firma sul patto — ma il Diavolo non dimentica.

In Bulgakov, invece, l’identità può trascendersi:

  • Il Maestro, dimenticato, rinasce grazie all’amore.
  • Margherita accetta la notte e l’inferno, per pietà.

Tre vie per la verità

  • Wilde: la verità è nel volto deformato, ma l’uomo la scopre troppo tardi, e si autodistrugge.
  • Bulgakov: la verità è nella fede e nell’amore, e può ancora redimere.
  • Parker: la verità è nella carne del peccato, e non può essere cancellata. Non ci sono fiori, né redenzione, né Margherite.

Il sangue — in Wilde versato per porre fine alla menzogna,
in Bulgakov purificato dall’amore,
in Parker — è contratto, è cifra, è condanna.


In tutte queste opere, il Diavolo — o la sua proiezione — non è mai soltanto un personaggio, ma una soglia. Nei panni silenziosi della Morte che gioca a scacchi con un cavaliere dubbioso nel Settimo sigillo, o in quelli eloquenti e affabili del mercante Leland Gaunt che vende “ciò che vuoi davvero” in Needful Things, questa figura non ha bisogno di minacciare né di mentire. La sua forza risiede nella capacità di risvegliare — senza imposizioni — ciò che giace già nel cuore dell’uomo.

Nel film di Bergman, l’assenza di Dio si riflette nel volto enigmatico della Morte, che con tono pacato chiede e ascolta, e che come Louis Cyphre non pronuncia giudizi, ma incarna una forma terribile di rivelazione. È una presenza-assenza che costringe i personaggi a interrogarsi, e che svela la vacuità della fede convenzionale, ridotta a superstizione o a paura. La sua ironia è sottile, tragica: non è beffarda, ma consapevole. La sua funzione è quella di porre la domanda definitiva: “Cosa resta, quando Dio tace?”

In Needful Things, invece, la presenza del Diavolo è dichiarata e quasi ludica: Leland Gaunt si presenta come un commesso impeccabile, ma il suo negozio è una fiera delle vanità interiori, dove ogni oggetto acquistato diventa un catalizzatore di rovina. Come Louis Cyphre, anche Gaunt opera secondo una logica immutabile: non è lui a corrompere, sono gli uomini a rivelare la propria corruzione. Il contratto non è imposto: viene accettato con entusiasmo, con l’ingenuità di chi crede che l’anima sia un dettaglio trascurabile.

In entrambi i casi, il Diavolo non ha nulla del demone medievale con le corna e il forcone. È piuttosto una figura del disincanto moderno, un trickster sacro che agisce non per distruggere, ma per smascherare. Il suo vero potere è quello dello specchio: riflette l’identità più autentica, quella nascosta dietro il velo dell’io. È, paradossalmente, uno strumento della conoscenza.

Louis Cyphre, la Morte di Bergman e Leland Gaunt condividono così un medesimo destino narrativo e simbolico: non sono agenti del male, ma agenti dell’evidenza, strumenti che rimettono ogni personaggio davanti al proprio abisso. Satana — che sia travestito da impresario del blues, da venditore di ninnoli o da giocatore silenzioso — non punisce: ascolta. Non impone: offre. E, infine, non mente: rivela.

Ma entriamo nel tema affascinante del Diavolo come alleato spirituale rovesciato, una figura ambivalente che sfugge all’immagine tradizionale del male assoluto per incarnare piuttosto un catalizzatore di conoscenza, trasformazione e rottura dei limiti umani.


Mephistopheles in Doktor Faustus di Klaus Mann

Nel romanzo Doktor Faustus (1947) di Klaus Mann, Mephistopheles si manifesta come una presenza complessa, profondamente ambigua rispetto alla figura classica. Non è semplicemente il demone tentatore, ma piuttosto un’entità riflessiva, un interlocutore che incarna il dubbio, il tormento e la disillusione dell’intellettuale moderno.

Mephistopheles qui diventa una sorta di specchio dell’anima di Faustus, che attraverso il patto con il Diavolo si imbarca in un viaggio conoscitivo estremo — non verso il potere o il piacere fine a sé stessi, ma verso un’arte e una cultura che si fanno esperienza dell’abisso storico e morale del Novecento.
L’alleanza con il Diavolo è quindi una metafora della responsabilità tragica dell’artista di fronte alla catastrofe: la scelta di svelare l’oscurità del mondo, anche a costo della propria distruzione.

In questo senso, Mephistopheles è un “alleato rovesciato” perché non conduce al successo facile o alla salvezza, ma a una forma di conoscenza dolorosa, quasi gnostica, che rompe le certezze e disvela l’abisso nascosto dietro l’illusione del progresso umano.


Lucifer nella serie Sandman di Neil Gaiman

Nel mondo contemporaneo del graphic novel, la figura di Lucifer nella serie Sandman (1989-1996) di Neil Gaiman rappresenta un’ulteriore evoluzione del Diavolo come alleato spirituale rovesciato.

Lucifer non è un’entità demoniaca malvagia e brutale, ma un essere estremamente complesso, quasi tragico, che sceglie di abbandonare il proprio ruolo di Signore degli Inferi per affermare la propria libertà e autodeterminazione.
Il suo gesto è un atto di ribellione non contro Dio in senso banale, ma contro la necessità di essere una semplice funzione del male: Lucifer desidera esistere come soggetto libero, padrone del proprio destino.

Questa figura riflette l’archetipo del trickster e dell’alleato rovesciato in modo netto:

  • Da un lato, è il tentatore e l’ingannatore, colui che mette alla prova le certezze umane.
  • Dall’altro, è un portatore di luce (Lucifer, “portatore di luce”), un liberatore che incarna la possibilità di scelta e di conoscenza.

Il Lucifer di Sandman è emblematico di una lettura moderna e postmoderna del Diavolo: non più esclusivamente il male incarnato, ma una forza che sfida le dicotomie tradizionali, spalancando le porte a una riflessione più sfumata sul bene, il male, la libertà e la responsabilità.


Un’alleanza rovesciata: conoscenza e libertà attraverso la figura diabolica

In entrambe le opere, il Diavolo come alleato spirituale rovesciato è qualcosa di più di un semplice nemico da combattere o una forza da temere: è un punto di rottura, un innesco per la trasformazione.

  • Mephistopheles in Doktor Faustus non è solo il “cattivo” che trionfa, ma l’incarnazione del dubbio intellettuale e della sfida etica.
  • Lucifer in Sandman è un essere che rivendica il diritto di non essere definito dalla sua origine, espressione di un’esistenza fluida, sfuggente, in bilico tra luce e ombra.

In entrambi i casi, la figura diabolica si rovescia da simbolo di condanna a portatore di una possibile salvezza interiore, non tramite la redenzione convenzionale, ma tramite l’accettazione della complessità e dell’ambiguità dell’esistenza.