C’è un silenzio che non è più semplice assenza di suono. È un silenzio che abita le case, le strade, i luoghi di incontro; che si deposita negli oggetti, nei gesti quotidiani, persino nei nostri pensieri. Non è il silenzio della pace o della meditazione, ma un silenzio vuoto, scostante, che non prepara, non accoglie, non apre a nulla. È un silenzio che chiude, che sottrae possibilità, che impoverisce.
In questo silenzio, la consapevolezza arriva come una rivelazione lenta ma implacabile: nessuno sembra più interessarsi a nessuno. Non è una frattura improvvisa, non c’è stato un evento singolare che l’ha generata; è piuttosto una trasformazione molecolare, accumulata nel tempo, invisibile, che ha scavato sotto le fondamenta delle relazioni. Viviamo immersi in una società che ha smarrito il desiderio stesso dell’altro.
Non c’è più spazio per il contatto autentico, quello che un tempo era ordinario, quasi banale: parlare occhi negli occhi, ridere insieme, mangiare e bere come se il semplice fatto di essere presenti nello stesso luogo fosse già un motivo di gioia. Tutto questo ora appare remoto, quasi mitologico: un tempo in cui la vicinanza era una prassi e non un lusso. Oggi il contatto è filtrato, mediato, ridotto a immagine, a segnale, a traccia digitale. E la memoria di ciò che eravamo diventa quasi dolorosa, come il richiamo a una lingua che non sappiamo più parlare.
Qualcuno ha detto: “Ricorda la terra, gli orti, la fatica delle mani immerse nella zolla, la prossimità semplice e necessaria degli altri.” Parole che pesano come pietre, perché ricordare significa ammettere la perdita. E nella perdita, la scrittura assume un significato diverso: non più atto libero, ma gesto di sopravvivenza, di accatto, di negoziazione. Scrivere diventa cercare favori, amicizie funzionali, alleanze di breve durata, persino amanti provvisori, tutto ridotto a scambio e baratto.
In questa condizione, dire la verità diventa rischioso. Io, che non ho mai amato il silenzio accomodante, so che ogni parola è un colpo a un fragile vaso di porcellana cinese: la rappresentazione di un’identità costruita e tenuta insieme solo per consuetudine. Quel vaso è già scheggiato, già incrinato, e dentro di esso c’è qualcosa che non dimentica e non perdona: un’insofferenza nata dall’abbandono, dall’indifferenza, dall’incomunicabilità. Questa insofferenza si amplifica e diventa grido, un grido che attraversa la letteratura e denuncia una realtà imbarazzante: pubblicare non è mai stato un diritto, ma un privilegio fragile, un miraggio concesso a pochi, negato a molti.
C’è una memoria che non smette di bussare, una memoria che non si lascia archiviare come un file, che non vuole diventare un semplice documento. È la memoria di un tempo in cui la scrittura era legata all’esperienza, un’estensione naturale dell’essere con gli altri. Scrivere era portare un pezzo di mondo dentro la pagina, era aprire un varco per condividerlo. Ora questa memoria appare quasi sospetta, come un ricordo che disturba, che interrompe l’inerzia di ciò che è diventato normale: scrivere senza lettore, parlare senza ascolto, produrre senza ricevere risposta.
Questa trasformazione non riguarda solo l’atto tecnico dello scrivere: riguarda il senso stesso del gesto. Perché quando la scrittura perde il suo destinatario reale, cambia natura. Diventa autoconservazione, un modo per non dissolversi, un’azione simile a respirare in una stanza chiusa. Non è più comunicazione, ma funzione vitale minima: mantenersi in vita come scrivente, non come autore.
E allora appare chiara un’asimmetria: pochi che riescono a pubblicare, moltissimi che restano nell’ombra. Una sproporzione che è sempre esistita, ma che oggi è diventata condizione costitutiva, sistema stabile, quasi un dogma implicito. E per sopravvivere a questa asimmetria, nascono dottrine consolatorie: “Non serve l’autorialità”, “Non serve essere visti”, “Scrivi per te stesso, basta e avanza.” Sono idee che sembrano liberatorie, ma in realtà anestetizzano, attenuano il dolore senza curare la ferita.
La ferita resta, eccome se resta: la ferita di un linguaggio che non incontra più. Perché la scrittura senza incontro non è solo incompleta: è inefficiente, sterile, accumulativa. È come costruire archivi che nessuno consulterà mai, come collezionare chiavi senza avere più porte da aprire. Non è questione di stile, non è una colpa personale: è una condizione generale, sistemica, che riguarda tutti.
E quando cade il patto tra chi scrive e chi legge, non si rompe solo un legame professionale o estetico: si rompe un’idea di comunità. Scrivere è sempre stato, in fondo, un atto di relazione: “Io ti dico, tu mi ascolti; io immagino, tu abiti la mia immaginazione con la tua presenza.” Senza questa reciprocità, le parole diventano puro deposito, un accumulo inerte, una zavorra.
Questo non è un semplice problema culturale: è un sintomo antropologico. È la prova che l’idea stessa di prossimità è in crisi, che non sappiamo più come stare insieme, che non ci riconosciamo più in uno spazio comune. Una letteratura inefficiente non è solo una letteratura che non vende: è una letteratura che testimonia la frattura sociale, il venir meno di una fiducia di base. È un sintomo che parla di noi come comunità, non solo di noi come autori o lettori.
Quando un sistema collassa non lo fa con un grande boato, ma con un lungo, quasi impercettibile cedimento. Così accade alla scrittura: non c’è un singolo evento che decreta il suo fallimento, ma un susseguirsi di piccoli mutamenti che si sommano, che si stratificano fino a diventare irreversibili. Non è un crollo spettacolare, ma una lenta erosione, una sabbia che consuma la roccia finché la roccia non cede, e lo fa senza rumore.
Il primo segno di questo collasso è l’accumulo sterile. Non più opere che generano dialogo, ma testi che si ammassano come rottami: scritti che non incontrano lettori, che non entrano mai in una relazione viva. È un fenomeno vasto, che attraversa tutti: dai diari personali alle piattaforme social, dai manoscritti dimenticati alle pubblicazioni autoprodotte. È come se la scrittura stessa fosse diventata un deserto: un luogo pieno di oggetti, di resti, ma privo di movimento vitale.
Questa condizione non è solo estetica, non è un problema di qualità. È strutturale, e riguarda l’ecosistema stesso delle relazioni. Perché una scrittura inefficiente non è inefficiente solo come prodotto culturale, ma come pratica umana. Quando il testo non incontra nessuno, non si limita a non essere letto: smette di essere un ponte, smette di essere un atto di relazione. Si trasforma in un monologo senza destinatario, in un gesto che imita la comunicazione ma non la produce.
In questa situazione, la domanda si impone con forza, con crudezza: perché continuiamo a scrivere? Qual è il senso di un atto che non arriva a destinazione? È un atto di fede, una dichiarazione di resistenza, o semplicemente un’abitudine che non sappiamo interrompere? Scrivere per chi non leggerà mai è come parlare in una stanza vuota, come gettare un sasso in un lago prosciugato: il gesto esiste, ma non produce eco.
E qui nasce un’altra domanda, ancora più radicale: è la scrittura a essere in crisi o è la nostra capacità di incontro? Forse la letteratura inefficiente non è la causa, ma il sintomo: il segno visibile di un mondo che non sa più costruire relazioni stabili, che non sa più creare luoghi di scambio autentico. Forse la scrittura ci mostra semplicemente ciò che siamo diventati: una moltitudine di solitudini, ognuna chiusa nel proprio spazio, ognuna impegnata a produrre segni che nessuno raccoglierà mai.
Così, scrivere diventa simile a camminare nel deserto: un gesto di sopravvivenza più che di comunicazione, un atto che serve a se stessi più che agli altri. Non è più un’offerta, ma un bisogno minimo: respirare, lasciare traccia del proprio passaggio, segnare un punto su una mappa che nessuno consulterà. E in questo deserto, la domanda finale si fa più aspra: stiamo ancora comunicando o ci stiamo solo convincendo di farlo?
Ciò che colpisce, più di ogni altra cosa, è la naturalezza con cui accettiamo questa condizione. Nessuna ribellione, nessun rifiuto esplicito, nessuna grande protesta. Continuiamo a scrivere, come se fosse inevitabile, come se il gesto stesso fosse più importante dell’esito. È un automatismo culturale: abbiamo imparato a produrre parole come si impara a respirare, senza chiederci perché. Non importa più se qualcuno ascolta, se qualcuno legge: importa solo che la macchina non si fermi, che il movimento continui.
Ma è davvero movimento? O è solo un’illusione, un modo per non guardare in faccia la staticità che ci circonda? Perché ogni testo, ogni parola, ogni immagine condivisa senza destinatario reale è come un passo compiuto su un tapis roulant: un’azione che imita il viaggio ma che non porta da nessuna parte. È un dinamismo apparente, un giro perpetuo che serve a illudere di essere ancora vivi, di essere ancora connessi, di essere ancora “dentro” qualcosa.
Questa illusione è potente perché maschera un fallimento più profondo, un fallimento antropologico: quello dell’incontro. Abbiamo perso la capacità di incontrarci davvero, di esporci al rischio dell’altro, di accettare la vulnerabilità che ogni relazione comporta. Abbiamo sostituito il volto con la sua immagine, il gesto con la sua replica digitale, la voce con la sua registrazione. E nel farlo, abbiamo accettato una perdita enorme: la perdita dell’imprevisto, del non controllato, del vivo.
La scrittura, in questo contesto, diventa la cartina di tornasole di un’intera identità collettiva. Perché la letteratura non è mai stata solo un insieme di libri: è stata un modo di abitare il mondo insieme, un modo di scambiare esperienze, di immaginare comunità. Se oggi la scrittura è inefficiente, è perché lo è diventata anche la nostra idea di comunità. Non siamo più capaci di immaginare un “noi” che non sia frammentato, parziale, temporaneo.
E allora, dietro l’inefficienza letteraria, c’è una domanda più vasta, che non riguarda solo gli autori, i lettori o l’editoria: riguarda noi come specie sociale. Abbiamo ancora la capacità di immaginare un futuro condiviso? O stiamo semplicemente documentando, in silenzio, la nostra disgregazione? Ogni testo che non trova un lettore diventa una piccola testimonianza di questo smarrimento, un frammento che dice: “Eravamo qui, ma non ci siamo incontrati.”
C’è una memoria che non appartiene solo alla mente, ma al corpo. Una memoria fatta di gesti, di ritmi, di rituali condivisi. Il corpo ricorda la stretta di mano, il calore della vicinanza, la tensione di uno sguardo reciproco che non ha bisogno di parole per essere completo. Questa memoria, oggi, è come un’eco lontana, un suono che riconosciamo ma che non sappiamo più riprodurre.
Una volta, il mangiare insieme non era solo un atto di nutrizione: era un rito. Sedersi intorno a una tavola significava sospendere il tempo della produzione, del lavoro, del calcolo, per entrare in un tempo altro: un tempo di relazione. Il rito della tavola, del brindisi, della risata comune, era un modo per confermare ogni giorno l’esistenza di un legame. Era una forma di linguaggio del corpo: un linguaggio che oggi abbiamo perso o trasformato in simulacro, in evento fotografabile e condivisibile, svuotato del suo spessore reale.
La scrittura stessa, un tempo, aveva qualcosa di rituale. Non era solo trasmissione di contenuti, ma un gesto denso di intenzione: scrivere significava dire “ti vedo, ti penso, ti includo nel mio mondo.” Oggi quel gesto è cambiato: si scrive perché si deve, si scrive per riempire un vuoto, per non sparire del tutto. Non c’è più il patto implicito con chi leggerà, perché non c’è più la certezza che qualcuno leggerà davvero.
Si potrebbe immaginare di ricostruire quel patto, ma è un’impresa che richiederebbe non solo nuovi strumenti, ma un cambiamento radicale di mentalità. Perché un patto non è mai solo tecnico: è un atto di fiducia. È dire: “Io mi espongo e tu mi accogli, tu ti esponi e io ti accolgo.” In un mondo che vive di autosufficienza, che celebra l’indipendenza come valore assoluto, la fiducia diventa quasi un atto sovversivo.
È possibile ricostruirlo? Forse sì, ma non senza pagare un prezzo. Bisognerebbe accettare di essere vulnerabili, di rinunciare a parte dell’autonomia che oggi difendiamo come un totem. Bisognerebbe accettare il rischio dell’incontro, con tutto ciò che comporta: il rischio di essere rifiutati, fraintesi, giudicati. Solo così la scrittura potrebbe tornare a essere relazione, scambio, rito.
Ma siamo pronti? O preferiamo continuare a scrivere come ora: senza destinatario, senza rischio, senza patto, in un circuito che ci tiene occupati senza davvero toccarci?
La scrittura, in fondo, è uno specchio implacabile. Riflette ciò che siamo, senza filtri, senza edulcorazioni. Se la scrittura è inefficiente, sterile, inefficace, allora significa che anche noi siamo così. Un popolo frammentato, che fatica a incontrarsi, che ha smarrito la forza della parola condivisa e la profondità del silenzio condiviso.
Questo specchio può essere spietato, ma è anche un dono. Perché offre una possibilità di consapevolezza, una chance per uscire dall’inganno dell’illusione. La scrittura inefficiente parla chiaro: ci dice che non basta più raccontarci storie individuali, che non basta più produrre testi come fossero gocce isolate in un mare infinito. Ci invita a cercare un linguaggio nuovo, un linguaggio che sappia includere, che sappia tessere fili tra isole separate, che sappia costruire ponti e non muri.
Ma quale linguaggio? Forse un linguaggio che ritorni a essere corpo, respiro, gesto; un linguaggio che non si limiti alla parola scritta, ma che sappia mescolare suoni, silenzi, presenze. Forse un linguaggio che riconosca la vulnerabilità come forza, la fragilità come luogo di incontro. Un linguaggio che sappia dire “noi”, e non solo “io”.
La domanda che rimane, allora, è quella che ha attraversato tutto questo discorso: abbiamo ancora la forza di ricostruire? Abbiamo ancora la capacità di immaginare una comunità che non sia soltanto somma di solitudini, ma un organismo vivo, capace di relazioni autentiche?
La scrittura può essere questo, e forse lo è sempre stata: il luogo dove si costruisce e si ricostruisce l’identità collettiva, il teatro della nostra presenza insieme. Ma solo se smettiamo di scrivere per riempire un vuoto sterile, e iniziamo a scrivere per tessere relazioni vive.
E allora, forse, la vera sfida è qui: tornare a guardare negli occhi, a ridere insieme, a mangiare insieme. Tornare a scrivere insieme, non soli.
Tornare a guardare negli occhi: questa frase risuona come un mantra, un richiamo antico e al tempo stesso urgente. Perché lo sguardo è più di un semplice atto visivo; è un atto di presenza, un riconoscimento reciproco, una conferma che l’altro non è solo un’ombra o un riflesso, ma un essere in carne e ossa. Lo sguardo dice: “Ti vedo, esisti, sei qui con me.” È il primo gesto della relazione, il primo passo fuori dalla solitudine.
Ma lo sguardo è anche vulnerabilità: esporsi allo sguardo dell’altro significa perdere un po’ della propria difesa, mostrare le crepe, le paure, i desideri nascosti. Ecco perché spesso lo evitiamo, preferendo la distanza sicura di uno schermo o la mediata presenza di un testo digitale. È più facile leggere una parola che incontrare un volto, più facile scrivere un post che sostenere un dialogo.
Tornare a ridere insieme è tornare a condividere uno spazio di leggerezza, di sospensione dalle pesantezze del mondo. La risata è un suono che unisce, una vibrazione che attraversa corpi e cuori. Ridere insieme significa creare una comunione effimera ma reale, un patto di fiducia e di gioia. È un rito spontaneo che rivela ciò che ci unisce al di là delle parole.
Tornare a mangiare insieme: un gesto apparentemente semplice, eppure carico di senso. Sedersi a tavola non è solo nutrirsi, è condividere un tempo che si sottrae alla frenesia, è fermarsi a riconoscersi in un cerchio di umanità. Il pasto comune è un rito antico, la base di ogni comunità. Perderlo significa perdere anche quella trama di piccoli legami quotidiani che ci rendono parte di qualcosa.
Questi tre atti – guardare, ridere, mangiare insieme – formano un nucleo essenziale di ciò che significa vivere in relazione. Sono gesti che la scrittura può evocare, può tentare di riprodurre, ma che non può sostituire pienamente. La scrittura può aprire la strada, può indicare la direzione, ma non può mai sostituire il corpo che si incontra, il respiro che si condivide, la presenza che si fa tangibile.
E allora si apre una tensione profonda: quella tra la solitudine della scrittura e il desiderio di comunità. La scrittura nasce spesso nella solitudine, è un atto individuale, intimo, talvolta doloroso. Ma questa solitudine non deve diventare isolamento definitivo. Deve restare un luogo di partenza, non una condizione permanente.
La sfida è imparare a tessere fili tra queste solitudini, a costruire reti di significato che non siano semplici aggregazioni ma vere comunità di senso. Una rete dove ogni voce sia riconosciuta, ascoltata, valorizzata, e dove la scrittura diventi strumento di incontro, non solo di espressione.
Forse la scrittura inefficiente è il segno che abbiamo smarrito questa strada, ma anche un invito a ritrovarla. Un invito che possiamo accogliere solo se siamo pronti a uscire dall’egodromo, a lasciare la circolarità sterile e a lanciarsi nel rischio del vero incontro.
Alla fine, resta la tensione tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere, tra la solitudine che ci definisce e la comunità che ci chiama. La scrittura, con tutta la sua fragilità, è forse l’ultimo luogo dove questa tensione può trovare voce, dove il desiderio di relazione può manifestarsi anche nel mezzo del silenzio.
Non è un luogo facile, non è un luogo garantito. Scrivere significa esporsi, rischiare di non essere visti, di non essere compresi, di restare soli con la propria voce in un deserto che sembra infinito. Ma è anche un gesto di coraggio, un atto di fede nella possibilità di un incontro, nella forza di una parola che attraversa il tempo e lo spazio per raggiungere un altro.
Abbiamo davanti una responsabilità: non lasciare che la scrittura diventi solo un’eco vana, un rituale senza significato, ma renderla strumento di costruzione, di apertura, di riconoscimento. Ricostruire, passo dopo passo, quel patto antico che ha fatto della parola scritta un ponte tra esseri umani.
E questo richiede qualcosa di più di tecniche, strategie o innovazioni digitali. Richiede un ritorno all’essenziale: al corpo, al gesto, allo sguardo, al respiro. Richiede di ritrovare la capacità di dire “tu”, di aprirsi al rischio dell’altro, di accettare la fragilità come parte della forza.
La scrittura inefficiente ci parla di una crisi profonda, ma ci parla anche di una possibilità. La possibilità di riscoprire che, oltre la solitudine, esiste ancora la comunione; che, oltre il silenzio, può ancora esserci ascolto; che, oltre il deserto, può ancora germogliare vita.
Sta a noi scegliere.