L’uscita in libreria de “Le sventure della virtù” di Donatien Alphonse François de Sade, nella traduzione di Adriano Spatola, segna un momento straordinario per gli studi letterari e filosofici europei. Non si tratta, infatti, dell’ennesima riedizione di Justine ou les malheurs de la vertu, il romanzo che ha percorso le vie dell’infamia e del sublime con uguale furore, bensì della pubblicazione della prima stesura manoscritta di quel nucleo narrativo e teorico, redatto fra il 23 giugno e l’8 luglio 1787 nella Bastiglia, nella stanza che le cronache chiamano “della Seconda Libertà”, durante un periodo in cui il Marchese, pur martoriato da una dolorosa infiammazione agli occhi, scrive senza posa, animato da una pulsione tanto fisica quanto metafisica, come se la scrittura fosse la sola forma possibile di sopravvivenza e resistenza all’inumano della prigione e del mondo.
“Le sventure della virtù”, in questa forma originaria, doveva far parte di un più ampio ciclo narrativo intitolato Contes et Fabliaux du XVIIIe siècle, e rappresenta un autentico laboratorio morale, narrativo e stilistico. In esso, il Marchese enuncia per la prima volta, in forma quasi sistematica, la sua teoria dell’universale rovina della virtù, esponendo in una sequenza tragica – ma lucidamente costruita – una galleria di eventi in cui l’eroina, Justine, è progressivamente stritolata dalla coerenza delle sue scelte etiche. Il testo diviene così una sorta di manuale allucinato di pedagogia negativa, in cui il lettore è sfidato, provocato, messo all’angolo: quanto può resistere l’idea di bene se la realtà è governata dal male come regola?
Gli episodi descritti sono tasselli di un mosaico perfido e geometrico, simmetrie del supplizio: la castità punita nell’incontro con Dubourg, l’onestà respinta da Du Harpin, il rifiuto della violenza nella banda di malfattori nella foresta di Bondy, l’opposizione all’avvelenamento nel caso di Madame de Bressac, il gesto pietoso che impedisce la dissezione di una fanciulla viva da parte del medico Rodin, fino al paradosso assoluto della religione rovesciata – l’eroina cerca conforto nei sacramenti e viene violentata dai monaci – e della beneficenza che si ritorce contro: salvare un bambino da un incendio diventa un pretesto per nuove torture e nuove umiliazioni.
In questo incastro feroce di episodi, la logica perversa dell’universo sadiano si presenta in una forma purissima, anteriore alle esasperazioni barocche del “sistema Juliette”, e anzi spesso attraversata da una scrittura intensa ma ancora sorvegliata, una lingua che resta miracolosamente tersa pur nel racconto dell’osceno e dell’abominevole. Non vi è compiacimento, ma lucidità: il dolore non è decorazione, ma dimostrazione. L’orrore è logico. Il mostruoso è coerente. In questo, il Sade del 1787 non è ancora il grandioso mitografo del vizio assoluto, ma un filosofo della rovina morale, un illuminista stregato dalle tenebre della natura.
E proprio questa contraddizione – tra la chiarezza razionale del suo impianto narrativo e l’abisso etico che ne emerge – è ciò che rende quest’opera un documento straordinario. Essa permette al lettore moderno di accostarsi a un Sade inedito, più vicino a Voltaire che a Lautréamont, più vicino a Diderot che a Bataille, eppure già capace di fondare il genere del racconto filosofico estremo, in cui la verità del pensiero si ottiene non per sillogismo, ma per lacerazione.
In questo senso, la Justine del 1787 non è ancora un personaggio totale, come accadrà in seguito, ma una figura di passaggio, un’anima esposta al mondo, un dispositivo narrativo che funziona come lente d’ingrandimento della crudeltà sociale e istituzionale. Ogni scena non è solo una prova, ma una parabola dell’assurdo etico. La virtù, ci dice Sade, non è solo inutile: è la vera colpa. Essere giusti è un crimine. Il mondo, se governato dalla natura, non premia la bontà, ma l’astuzia, il dominio, la forza bruta. Ogni tentativo di opporsi a questa logica – ogni gesto di pietà, di generosità, di pudore – è come una bestemmia lanciata contro l’universo. E l’universo reagisce punendo il virtuoso.
C’è, in tutto ciò, una disperazione glaciale, che però si traveste da dimostrazione scientifica. Il sadismo di Sade, nella sua prima espressione filosofico-letteraria, non è ancora orgiastico, ma clinico: egli osserva, compila, enumera. È uno zoologo della morale. È un fisiologo dell’etica. Ed è proprio questa distanza dallo scandalo facile, questa compostezza della lingua – che resta, come nota giustamente la presentazione editoriale, pura nel lessico anche nel mezzo degli orrori più indicibili – a rendere questa prima versione così inquietante e necessaria. Il male è tanto più pericoloso quanto più è detto bene.
È lecito allora parlare di grande letteratura. Come nei Crimes de l’amour, dove Sade accetta fino in fondo la sfida del romanzo sentimentale per capovolgerlo dall’interno, anche in queste Sventure della virtù il linguaggio narrativo classico viene utilizzato con sapienza estrema, quasi con amore, per destrutturare il concetto stesso di narrazione edificante. Sade non distrugge il romanzo morale: lo riscrive con il sangue della sua verità.
Ecco perché questa pubblicazione non è solo una rarità per studiosi e appassionati, ma un autentico contributo alla comprensione del pensiero sadiano prima che diventi sistema, prima che la provocazione si faccia rituale, prima che l’orrore diventi liturgia. È il Sade “prima del diluvio”, quello ancora intento a costruire, pezzo per pezzo, il suo terribile meccanismo narrativo.
Il valore di questa pubblicazione non è dunque meramente storico o antiquario, ma radicalmente conoscitivo: ci troviamo di fronte a un'opera che, sebbene non sia stata intesa da Sade come definitiva, si presenta con una struttura interna sorprendentemente coerente, una lingua più misurata, un’architettura narrativa essenziale e crudele, una forza logica che la rende un unicum. È come se ci fosse stato un momento, fra le mura della Bastiglia, in cui la lucidità visionaria del Marchese avesse raggiunto un grado di precisione e rigore tale da illuminare tutto ciò che verrà dopo, perfino le opere più prolisse, come Juliette, dove il sistema si dilata in un orgiastico esercizio di digressione e sofismo.
Nella stesura del 1787, invece, la storia si mantiene su un piano più compatto, il cui scopo non è ancora quello di sedurre nella vertigine, ma di dimostrare nella crudeltà. Sade non ha bisogno, qui, di far parlare filosofi libertini per cento pagine di seguito: gli eventi parlano da soli, l’orrore ha il ritmo di una fatalità greca, non di un piacere disinvolto.
Se nella Justine del 1791 l’orrore si mescola a una sorta di cupa voluttà discorsiva, e la protagonista – nella versione “Justine, ou les Malheurs de la Vertu” pubblicata a nome “Mr le Chevalier de S***” – appare più stratificata e tragica, nel testo del 1787 Justine è quasi una figura concettuale, un principio incarnato, una geometria dell’etica martirizzata dal mondo. È uno strumento più che una persona, e proprio in questo risiede la sua potenza: non commuove, ma obbliga a pensare.
Il lettore è così esposto a una serie di dilemmi insostenibili: come può l’essere umano restare fedele al bene, se ogni gesto virtuoso è punito con la violenza, la tortura, l’umiliazione? E ancora: vale la pena difendere la propria integrità morale, se la realtà non riconosce alcuna legge morale? In tal senso, l’opera prefigura, con anticipo profetico, una parte fondamentale della crisi novecentesca della ragione, e si potrebbe dire – forzando ma non troppo – che in questa giovane Justine umiliata e pure incrollabile si possa leggere l’ombra lontana di Anna Frank, di Kafka, di Simone Weil, delle voci cioè che, in contesti storici diversissimi, si troveranno a chiedersi come sia possibile continuare a credere nella bontà, quando il mondo si fonda sull’opposto.
Sade anticipa – e in un certo senso fonda – l’anti-umanesimo moderno. Non un rifiuto emotivo della bontà, ma una dissezione anatomica del concetto stesso di virtù. Ed è proprio in questo laboratorio testuale della Bastiglia che si compie uno dei gesti più inauditi del pensiero europeo: non criticare la religione per le sue ipocrisie, come facevano Voltaire e i philosophes, ma mostrare come proprio la religione sia, nel suo stesso nucleo, una macchina perversa di dominio e umiliazione. Il racconto della monacazione forzata, della violenza sotto il manto sacrale, dell’abuso confessionale, assume in Sade il tono di un’apocalisse spirituale che nessun altro autore del suo tempo osò immaginare con altrettanta chiarezza.
E tuttavia, nonostante tutto, il testo non si trasforma mai in pura negazione. È vero: la virtù è punita, l’innocenza viene violata, la pietà ridicolizzata, la religione svergognata. Ma il fatto stesso che Justine continui ad agire secondo coscienza la trasforma, paradossalmente, in un simbolo irriducibile. La sua coerenza – anche se continuamente sconfitta – è ciò che produce il contrasto, lo scandalo, il pensiero. È una figura negativa, sì, ma necessaria: è l’elemento perturbante che fa esplodere la logica dell’universo libertino. È, potremmo dire, la “testimone” del male, non la sua complice. Ed è proprio per questo che la sua voce – seppure annientata – resta.
Non ci stupisce dunque che il lessico sadiano, in questa prima stesura, sia capace di una limpidezza quasi classica. I periodi non sono ancora congestionati dal desiderio di stupire o sovraccaricare. Il dialogo è vibrante ma non manierato. Sade scrive come se volesse convincere, non solo turbare. È come se stesse ancora cercando una lingua per dire l’orrore, e non avesse ancora deciso se preferire la grandiosa perversione o il rigore tragico.
Questo momento sospeso, questo equilibrio fra costruzione morale e brutalità narrativa, rende “Le sventure della virtù” non solo un’anticipazione ma anche un’opera autonoma e indispensabile, che getta una nuova luce su tutto ciò che seguirà. È il nucleo rovente da cui si sprigionerà l’incendio sadiano.
Siamo davanti, insomma, non solo al ritrovamento di una radice, ma alla possibilità di un nuovo dialogo con il presente. In un’epoca che ha rimesso in discussione il valore della bontà, della morale pubblica, della pietà – spesso ridicolizzandole come “virtù deboli” – l’opera di Sade ci costringe a chiederci: che cos’è la virtù oggi? Dove si nasconde? È ancora possibile credervi senza pagarne un prezzo?
Ecco il dono feroce del Marchese: non ci offre mai la consolazione, ma ci costringe a pensare. In questo, è più contemporaneo che mai.
1787: Sade, la Bastiglia, e la febbre nera del pre-Rivoluzione
È il 1787. Manca ancora un biennio alla caduta della Bastiglia, eppure la Bastiglia, nel paradosso assoluto, è già il centro simbolico del terremoto che viene: non solo una prigione, ma un laboratorio della crisi. Mentre Sade scrive Le sventure della virtù in quella che viene detta “Seconde liberté” – una cella meno stretta, ma non meno alienante – la monarchia assoluta scricchiola sotto il peso dei debiti, delle carestie, del disincanto.
Fuori, l’Assemblea dei Notabili è riunita, convocata da Luigi XVI per affrontare il collasso finanziario del regno. Il Terzo Stato ancora non ha voce, ma il suo grido sordo cresce ogni giorno. È l’anno in cui Condorcet pubblica le sue Cinque memorie sull’istruzione pubblica, in cui Lavoisier riformula la chimica e sfida le superstizioni mediche, in cui Mirabeau comincia a guadagnare consensi. In un simile contesto, ciò che scrive Sade non è più solo il delirio di un nobile libertino rinchiuso, ma una sorta di anticipo espressionista dell’abisso morale verso cui corre la civiltà francese.
Scrivere, per Sade, in quella cella, non è evasione ma radicalizzazione. Ogni riga di Le sventure della virtù è, paradossalmente, una forma di testimonianza rovesciata: là dove i filosofi illuministi cercano ancora la via della riforma razionale, lui descrive l’esito estremo della razionalità svincolata da ogni fondamento trascendente. La virtù non ha più Dio a proteggerla. Il bene non ha più un senso. E quando manca una trascendenza, l’etica si dissolve nel calcolo, nell’interesse, nella sopraffazione.
1787 è anche l’anno in cui Kant pubblica la seconda edizione della Critica della ragion pura. Ma là dove Kant cerca la condizione di possibilità dell’etica dentro la ragione, Sade mostra la ragione nel suo aspetto più lucido e spietato: la ragione che calcola, seziona, violenta, eppure non mente. In questo senso, la Bastiglia non è solo prigione: è specchio, è teatro, è speculazione carnale. Il sangue che cola dalla pagina è reale e concettuale. È la “prova” di ciò che accade quando la civiltà si libera di Dio senza possedere un’alternativa più giusta.
Materialismo, ateismo, rovesciamento della morale: la filosofia dell’abisso
Sade è figlio dell’Illuminismo, ma è il figlio bastardo che il padre non vuole riconoscere. Dove Voltaire ironizza, Sade disseziona. Dove Rousseau piange, Sade scuote e ride. Ma non è solo provocazione: è sistema. Un sistema in cui il corpo è l’unica verità, il piacere l’unica legge, la sofferenza altrui una variabile secondaria.
Siamo nel cuore del materialismo radicale settecentesco: Sade assorbe da La Mettrie, D’Holbach, Helvétius l’idea che l’uomo non sia altro che un aggregato di materia, passioni, impulsi. Ma se per questi autori ciò può portare a una nuova morale fondata sulla felicità condivisa e sull’interesse illuminato, per Sade non esiste felicità condivisa: esiste solo dominio.
L’universo è indifferente; la natura, in sé, non è buona, non conosce la compassione. E se l’uomo è natura, allora la virtù – qualora non produca piacere o potere – è semplicemente un ostacolo. Non solo inutile: dannosa. Ecco perché Justine viene punita: non perché il mondo è malvagio, ma perché lei si ostina a restare fuori dalla logica dominante. In una società senza Dio e senza provvidenza, ogni gesto disinteressato è uno scandalo.
Nel mondo sadiano, non c’è redenzione. Eppure, in questo universo amorale, Sade si fa filosofo dell’estremo, e la sua opera è, come disse Blanchot, un esercizio di pensiero senza risparmio. Sade mostra che la morale, se non fondata su qualcosa di esterno al desiderio, diventa un’illusione, una favola buona per essere divorati. La Justine del 1787 è l’agnello che osa credere nel bene in un mondo di lupi. E la sua ostinazione ha un che di sublime.
Nessuno come Sade ha trasformato la scrittura in esperimento morale: ogni episodio delle Sventure è una prova, un test, un caso limite. L’innocenza non solo non salva: attira il castigo. La generosità non protegge: rende vulnerabili. La fede non consola: conduce alla rovina. Non c’è Dio che guardi, né legge naturale che corregga: tutto si gioca nella volontà di potenza o nella sottomissione.
Eppure, proprio in questo vuoto abissale, emerge la domanda più lacerante: se il mondo è fatto così, che senso ha restare giusti? Che valore ha la virtù? È pura follia? O proprio nella sua inutilità risiede la sua grandezza?
Justine e le grandi tragiche: Antigone, Tess, Anna, Emma, Nina
La Justine sadiana, nella versione del 1787, non ha lo spessore psicologico che troverà nelle Justine successive. Ma proprio questa purezza schematica, questa linearità assoluta, la trasforma in una figura mitica, archetipica. Una sorella più cruda e solitaria di Antigone, che si oppone alla legge non per fedeltà alla famiglia, ma per fede nella bontà in sé. Ma l’esito, in entrambi i casi, è lo stesso: la rovina.
Come Antigone, Justine rifiuta il compromesso. Come Tess d’Urberville, è punita per la sua innocenza. Come Anna Karenina, è travolta da un mondo maschile che le impone ruoli inumani. Ma con una differenza radicale: Justine non ama, non spera, non si innamora, non cede. È senza crepe. E proprio per questo, nella sua fissità, è figura tragica pura.
A differenza di Emma Bovary, che sogna il romanzo, Justine non sogna nulla. Non chiede avventure, né eros, né ascese. Chiede di essere lasciata integra, e questo basta a scatenare l’inferno. È la figura femminile della coerenza assoluta, ed è proprio la sua irriducibilità a renderla “scandalosa”.
Possiamo persino azzardare un confronto con Nina, la protagonista di La voix humaine di Cocteau: entrambe parlano a un mondo che non risponde. Solo che mentre Nina implora e crolla, Justine resta fredda, sorda, pura. È un’anima incorruttibile, non una donna da amare. E in questo, forse, la più dolorosa delle creature sadiane.
Il suo corpo è violato, torturato, ma la sua mente resta illesa, o meglio: non cede mai all’odio. E questa è la cosa che Sade non spiega, che non teorizza, ma che resta come un enigma tragico al centro del racconto. Non è il bene che vince. Ma neppure il male. Ciò che resta, alla fine, è un silenzio che ci riguarda.
Proseguo con un’esplorazione delle reazioni di Bataille, Klossowski, Deleuze e Pasolini nei confronti della Justine del 1787 (o, più in generale, del primo Sade), concentrandomi su come ciascuno di questi autori abbia interpretato il significato di quell’eroina tragica e l’apparente “filosofia del disastro” che le è imposta. Seguirà una riflessione finale sulla fortuna editoriale del testo sadiano nel Novecento, con particolare attenzione al ruolo giocato dalla critica e dalla censura nella riscoperta delle Sventure della virtù.
Bataille, Klossowski, Deleuze, Pasolini: Justine come testimone dell’eccesso
Bataille: l’innocenza come provocazione del sacro
Per Georges Bataille, Sade non è un autore tra i tanti, ma il pensatore dell’eccesso assoluto, della trasgressione come esperienza del sacro. In La letteratura e il male e nei saggi precedenti, Bataille legge Sade come il punto di crisi della razionalità illuminista, non per negarla, ma per portarla al suo collasso mistico. In questo quadro, la Justine del 1787 è la vergine sacrificale, la vittima necessaria che consente il dispiegarsi dell’eccesso, della hybris, dell’assoluta dismisura.
Ciò che interessa a Bataille non è la morale ma il suo superamento. Justine, con la sua ostinazione angelica, mette in moto il dispositivo sacrificale: il suo corpo attraversa ogni degradazione non come punizione, ma come apertura al fuoco nero del sacro. In altre parole: il martirio di Justine è necessario per accedere a ciò che sfugge alla legge e alla ragione. Sade, per Bataille, è un sacerdote rovesciato, e Justine il suo agnello muto.
Eppure, nell’orrore che Justine attraversa, Bataille scorge una forma di potenza contraria: quella di una purezza indistruttibile, che resiste proprio perché inutile. L’innocenza di Justine provoca il male, chiama la tortura, esige la violenza, e in ciò sta il suo paradossale potere.
Klossowski: Justine come figura della simulazione teologica
In Pierre Klossowski, autore di Sade, mio prossimo (1947), troviamo un’interpretazione quasi teologica, iperconcettuale, ma anche radicalmente inquietante. Klossowski legge la Justine del 1787 come una figura post-religiosa: l’incarnazione della grazia in un mondo dove la grazia non esiste più.
La sua innocenza, scrive, non ha più alcuna giustificazione metafisica, e proprio per questo diventa “simulacro di una trascendenza assente”. La virtù di Justine non è solo inutile: è una bestemmia nell’universo sadiano, perché presuppone un ordine che non esiste più. In questo, Klossowski scorge in Justine una forza di attrazione oscura: non tanto vittima del male, ma polo d’attrazione della sua energia.
Il male, nel Sade di Klossowski, non punisce Justine perché è buona, ma perché non ha più senso essere buoni. E dunque ogni scena di tortura, ogni umiliazione, ogni abuso diventa una messa nera, una liturgia che simula un Dio morto. Justine è un resto, un frammento, una reliquia putrefatta della religione. Ed è proprio questa condizione larvale a renderla centrale per la modernità: è l’eroina della colpa senza colpa.
Deleuze: Justine e il sadismo come logica del senso
Con Gilles Deleuze, la lettura di Sade si sposta su un piano ancora diverso, sistemico, filosofico-matematico. In Presentazione di Sacher-Masoch e in Coldness and Cruelty, ma anche nei suoi scritti su Sade e Masoch, Deleuze distingue i due mondi non per gusto, ma per struttura logica.
Nel sadismo, dice, non c’è erotismo del dolore, ma meccanismo, dimostrazione, catena causale. Sade non è un sensuale, ma un geometrico della distruzione. In questo schema, Justine non è tanto una donna, quanto un teorema morale in attesa di confutazione. Il sadico dimostra l’inesistenza del bene attraverso il corpo della virtuosa. In questo senso, dice Deleuze, Sade è più kantiano di Kant: prende sul serio l’idea che la virtù esista, solo per smontarla con metodo.
E Justine? Per Deleuze, è il punto di partenza di un’equazione, l’ipotesi iniziale, il “se” di un sillogismo che ha già deciso il suo esito. La sua resistenza non è neanche tragica: è parte della macchina. Eppure, proprio nel suo essere “funzione”, Justine espone il nonsenso di ogni sistema chiuso, l’impossibilità di una morale senza fondamento. In questo senso, è la crepa nella logica sadiana. La sua ostinazione non è romantica, ma assurda. Ed è lì che Sade si trasforma in Kafka, dice Deleuze.
Pasolini: Justine come cifra del corpo offeso nella storia
Infine Pier Paolo Pasolini, che in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) rilegge Sade alla luce della storia, del potere, del fascismo consumista. Anche se Justine non è il testo scelto (Pasolini si rifà alla Sodoma), l’idea della vittima innocente travolta dal dispositivo sadico del potere è centrale anche per lui.
Pasolini vede in Justine la figura della purezza irrappresentabile, quella che, proprio perché non aderisce al codice del potere, deve essere eliminata. È la figura della minoranza, dell’indicibile, dell’alterità radicale. E in quanto tale, è martire, non santa. È “santa” nel senso di una santità senza religione, sacrificata dal mondo nuovo dei consumi e dell’obbedienza.
Nel film, come nel romanzo del 1787, il male non è individuale: è istituzionale, tecnico, organizzato. La logica della sopraffazione è neutra, “scientifica”. E Justine diventa la testimone muta dell’irreversibile. Ma se in Sade il male è teorico, in Pasolini è storico, attuale, italiano. Ecco perché Pasolini è forse il solo, tra i lettori moderni di Sade, a piangere su Justine. Perché sa che quella ragazza esiste, oggi, nel corpo dei marginali, dei diversi, dei poveri, dei “diversi”. E sa che non sarà salvata.
La fortuna editoriale nel Novecento: da plico proibito a mito moderno
La Justine del 1787, per oltre un secolo, è rimasta un oggetto invisibile, disperso tra manoscritti e tradizioni orali. Pubblicata clandestinamente solo nel 1930, e poi in modo più sistematico con l’edizione di Jean-Jacques Pauvert nel 1953 (ma in versione rivista), ha patito più della Justine del 1791 e del 1797 la condanna della censura, che ne giudicava inutile la circolazione proprio perché priva dell’apparato “filosofico” delle versioni successive.
Eppure, negli anni Cinquanta e Sessanta, proprio questa nudità diventa la sua forza. Scrittori e filosofi come Artaud, Blanchot, Bataille, Barthes, Klossowski, Deleuze, Sollers e Pasolini ne fanno un testo cultuale, un testimone del negativo, un frammento archeologico della distruzione della morale borghese.
Non è un caso che nei cahiers clandestini dei surrealisti, così come nei saggi strutturalisti del dopoguerra, la Justine del 1787 venga vista come la forma “pura” del sadismo, quella in cui il male non è ancora estetizzato, ma esercitato come un esperimento ontologico. È anche il momento in cui la critica femminista (da Simone de Beauvoir a Angela Carter) comincia a interrogarsi sul senso di questa figura femminile: è vittima, è simbolo, è parodia? È l’oggetto dell’oppressione patriarcale, o una sua silenziosa sabotatrice?
Nel corso del Novecento, da Justine derivano romanzi, adattamenti teatrali, film, fumetti, opere d’arte concettuale. Ma nessuna delle versioni successive ha mai cancellato quella prima, terribile incarnazione: la Justine che Sade, nel buio della Bastiglia, scrisse in quindici giorni su un rotolo nascosto tra le pietre, convinto che nessuno l’avrebbe mai letta. E proprio per questo, la più pura.