Chi lo ha letto sa che ogni suo libro è una conchiglia piena di silenzio, ma un silenzio che contiene le voci di mille personaggi: impiegati ansiosi, uomini soli, donne disilluse, amici dell’adolescenza mai cresciuti davvero, giovani vecchi e vecchi bambini. Sono i suoi “dilettanti”, come suggerisce il titolo del suo ultimo romanzo del 2018, pubblicato da Playground: “Dilettanti”, appunto, una parola che Severini non usa con disprezzo, ma con ammirazione. Perché in un mondo di specialisti, di vincenti a ogni costo, di uomini e donne a una sola dimensione, i suoi personaggi – e con loro il suo stile – rivendicano il diritto all’imperfezione, alla prova, all’errore. Alla dolcezza storta di chi non è mai stato preso sul serio.
Scrittore tardivo, esordì nel 1981 con “Nelle aranciate amare”, una raccolta poetica che già conteneva in nuce l’universo severiniano: la provincia, i bar, le comitive sfatte, gli amori secchi come noccioli. Ma è con “Consumazioni al tavolo” (1982) che inizia davvero il suo percorso narrativo, proseguito con “Sentiamoci qualche volta” (1984), libri poi riuniti nel volume “Partners” (Transeuropa, 1988), che includeva anche l’inedito “Feste perdute”. Racconti brevi, nitidi, come lampi nel buio. Racconti che potrebbero sembrare “piccoli”, se ci si ferma alla trama: un incontro in un bar, una telefonata, una passeggiata, una serata andata storta. E invece sono enormi, se si ascolta il battito delle emozioni che custodiscono.
L’anno successivo, sempre nel 1988, esce “Fuoco magico”, raccolta che porta la sua scrittura ancora più vicino alla linea della leggerezza malinconica: un tono che sembrava uscito da una canzone di Paolo Conte, o da un film di Olmi. Severini raccontava vite appena sbilanciate, amicizie interrotte, e un senso di solitudine che non ha mai bisogno di grandi spiegazioni, ma che si insinua in ogni dialogo come una nota bassa di pianoforte.
Il 1996 segna un punto di maturazione con “Congedo ordinario”, libro insieme sobrio e crudele, dove il tempo diventa più protagonista, e con lui la disillusione. Ma il capolavoro arriva due anni dopo: “Quando Chicco si spoglia sorride sempre” (1998), che vinse il Premio Loria ed entrò nel cuore di molti lettori e lettrici per quella sua capacità di restituire l’infanzia e l’adolescenza senza compiacimenti, senza nostalgia, ma con una verità ruvida, spiazzante. Chicco è un personaggio indimenticabile, ma lo è anche il tono con cui viene evocato: uno stile quasi da reportage emozionale, fatto di brevi sguardi, gesti trattenuti, parole che restano a mezz’aria. Chicco è tutti noi. Ma non lo sappiamo ancora.
Negli anni Duemila, Severini pubblica “La sartoria” (2001), “Ospite in soffitta” (2002), “Ragazzo prodigio” (2005) e “Il praticante” (2009). Sono romanzi brevi, intensi, in cui torna sempre la stessa atmosfera: le case silenziose, i rapporti irrisolti, le promesse mancate, il passato che non se ne va. Non c’è mai rancore, però, in queste storie. C’è uno sguardo che accoglie anche l’insensatezza, anche l’errore, e che ha compassione – nel senso più alto e letterario – per chi ha perso tempo, per chi non ha trovato un senso. Severini non giudica mai. E anche per questo le sue pagine hanno qualcosa di irripetibile: sanno che la vita è sbagliata, eppure meritano di essere scritte lo stesso.
Nel 2010 arriva “A cosa servono gli amori infelici”, romanzo limpido e commovente, finalista al Premio Strega l’anno dopo. È forse il suo libro più accessibile, ma non meno profondo. Vi si intrecciano memorie scolastiche, ritorni di fiamma, lettere mai spedite, giorni qualunque che si rivelano epifanie. E in mezzo, sempre, l’ironia leggera, quella che consola senza sdrammatizzare, che salva senza illudere.
Nel 2013 Severini pubblica “Backstage”, una lunga e commossa lettera al suo editore, una riflessione sulla scrittura come destino e scommessa. È un autoritratto obliquo, pudico, nel quale affiorano le ragioni profonde della sua marginalità. Severini sa benissimo di non essere alla moda, ma non gliene importa. Scrive per chi ha voglia di ascoltare, non per chi deve applaudire.
Il suo ultimo romanzo, “Dilettanti”, pubblicato nel 2018, è forse la sua summa, la sua elegia. Un libro sulla giovinezza che non passa, sull’arte di non riuscire, sulla bellezza del tentativo. Un libro in cui ogni personaggio si muove nella penombra dell’esistenza, cercando una traiettoria, un perché. E non trovandolo, ma continuando a cercare. Con gentilezza. Con ostinazione.
Severini è stato anche giornalista, collaboratore di riviste, animatore di piccole case editrici, ma soprattutto un grande insegnante, amatissimo dai suoi studenti. Un uomo di scuola, che credeva nella parola come strumento di verità, non di potere. Come disse in un’intervista, «scrivere è un modo per non dimenticare. Ma anche per non far dimenticare».
E infatti i suoi libri restano. Restano nel cuore di chi ha avuto la fortuna di scoprirli. Restano in quella zona grigia e bellissima della letteratura italiana dove stanno gli autori di culto, quelli che non vendono tanto, ma che vengono letti con amore, con dedizione. Severini non ha mai cercato il successo, e proprio per questo è diventato uno scrittore necessario.