Nato da un’idea di Gualtiero Jacopetti e realizzato con la collaborazione dei registi Paolo Cavara e Franco Prosperi, il film non raccontava una storia, non aveva personaggi né un arco narrativo. Era un contenitore, o meglio un’esplosione controllata di frammenti – 32 episodi, ciascuno della durata massima di dieci minuti – che componevano un catalogo delirante e spietato dell’umanità e delle sue bizzarrie. Era un mondo, anzi il mondo, come non lo si era mai visto. E proprio da questo titolo beffardo – Mondo Cane – emergeva il sottotesto: non siamo di fronte a una narrazione lineare, ma a un atto di accusa, a una liturgia grottesca celebrata in Technicolor contro la nostra stessa specie.
La voce fuori campo, onnipresente, non si limitava a introdurre gli episodi. Era un personaggio essa stessa, un giudice invisibile, ironico, spesso spietato, che punteggiava le immagini con sarcasmo, giudizio morale, e una sapienza retorica che suonava tanto più sinistra quanto più si fingeva neutra. In realtà, quella voce era lo strumento più potente dell’ideologia del film. Era la lente attraverso cui guardare le assurdità del mondo: matrimoni rituali in Nuova Guinea, donne che allattano maiali in Asia, saloni di bellezza per cani a New York, addestramenti paramilitari, danze esotiche, abitudini gastronomiche “inaccettabili”. Tutto veniva selezionato, montato, inquadrato con l’intenzione dichiarata – anche se mai davvero onesta – di mostrare “la verità”. Ma quella verità era deformata, caricaturale, ambigua. E soprattutto: costruita.
La grande ambivalenza di Mondo Cane risiede proprio in questo: è un film che pretende di essere un documentario, ma è costruito come uno spettacolo. Le sue immagini – molte delle quali visibilmente inscenate o orchestrate appositamente per la cinepresa – sono montate non per informare, ma per colpire, scioccare, impressionare. Si diceva che Mondo Cane raccontasse “il vero”, ma in realtà era una versione plastificata del vero, filtrata attraverso una volontà estetica e narrativa potentissima. Ed è proprio in questa tensione fra realtà e finzione, fra documentazione e spettacolarizzazione, che il film ha trovato la sua forza – e insieme la sua condanna.
Il pubblico, tuttavia, rispose con entusiasmo. Forse attratto proprio da quella morbosità elegante, da quel voyeurismo “colto”, Mondo Cane divenne un successo clamoroso. Fu distribuito in decine di paesi, incassò cifre enormi, vinse premi, suscitò scandalo. Il mondo – ironia delle ironie – si innamorò del modo in cui Jacopetti e compagni gli stavano dicendo quanto fosse orribile. E proprio su questa scia nacque un genere: il cosiddetto mondo movie, che da Mondo Cane prendeva nome e metodo, e che avrebbe avuto una lunga – e sempre più discutibile – discendenza. Film come Africa Addio, Addio zio Tom, Ultime grida dalla savana, e infiniti altri lavori apocrifi ne raccolsero l’eredità. Ma nessuno, nemmeno il sequel ufficiale Mondo Cane 2, riuscì a restituire la stessa miscela di stile, ferocia e ambiguità del capostipite.
Eppure, Mondo Cane non è solo un’opera ideologica, un pamphlet visivo travestito da documentario. È anche – e forse soprattutto – un film esteticamente affascinante. Girato in uno straordinario Technicolor, le sue immagini oggi sorprendono per brillantezza, profondità cromatica, nitidezza. È difficile credere che siano state girate oltre sessant’anni fa. Le inquadrature – spesso studiate, composte con cura maniacale – esibiscono una bellezza che contrasta violentemente con il contenuto delle scene: morti rituali, crudeltà verso gli animali, degrado sociale, deformazioni fisiche. Ma è proprio in questa frizione che il film trova la sua cifra più inquietante. È un’arte che seduce mentre mostra l’orrido. Un'estetica dell’indignazione, dove la bellezza delle immagini diventa veicolo di una condanna morale, e viceversa.
A rendere questa esperienza ancora più straniante ci pensa la musica. Riz Ortolani e Nino Oliviero compongono una colonna sonora che è, a tutti gli effetti, un capolavoro. Il tema More, con la sua malinconia struggente e il suo andamento quasi lirico, fu talmente amato da essere candidato all’Oscar e diventare uno standard internazionale, reinterpretato da decine di artisti. Eppure – anche qui – lo scarto è evidente: quella melodia dolce e malinconica accompagna immagini disturbanti, macabre, crudeli. Un canto d’amore che fa da colonna sonora alla miseria del mondo. L’effetto è quello di una bellezza tossica, una poesia perversa che si insinua sotto pelle.
Ma Mondo Cane, nel suo paradossale successo, portava già in sé il seme della propria obsolescenza. La sua formula, replicata fino all’assuefazione negli anni successivi, divenne presto maniera. I mondo movies si fecero sempre più gratuiti, sensazionalistici, scadendo nel trash più estremo, e abbandonando ogni pretesa di sguardo critico. Nel frattempo, i linguaggi del documentario cambiavano, il cinema diventava più autocritico, e il pubblico più disincantato. Eppure, la lezione di Mondo Cane non si è esaurita. Il suo modo di mettere in scena il mondo come un freak show, di giocare con i confini fra realtà e spettacolo, anticipa molte delle dinamiche dei media contemporanei. I reality, i video virali, i reportage manipolati, le piattaforme dove tutto è visibile, tutto è “vero” ma anche costruito: tutto questo ha qualcosa, seppure involontariamente, dell’eredità di Jacopetti.
Mondo Cane è un’opera che continua a spalancare interrogativi non solo sul modo in cui si fa cinema, ma anche sul modo in cui si osserva il reale. Vale la pena allora soffermarsi su almeno altri tre piani di lettura: quello politico, quello etico e quello estetico-tecnologico.
Sul piano politico, Mondo Cane è un film ambivalente, e proprio per questo ideologicamente pericoloso. A una prima visione sembra progressista: mette a nudo le ipocrisie dell’Occidente, il razzismo istituzionalizzato, l’alienazione delle metropoli, le contraddizioni dello sviluppo. Ma più lo si guarda, più emerge una pulsione reazionaria, quasi darwiniana, che non propone soluzioni ma si compiace del disastro. C’è un compiacimento nella deformità, un piacere voyeristico nella disperazione altrui, che non viene mai davvero contrastato. Il rischio (che alcuni critici di allora, come Moravia, notarono con lucidità) è che dietro l’indignazione simulata si nasconda in realtà un fastidio viscerale per tutto ciò che è “altro”: il diverso, il primitivo, il femminile, il non-bianco, l’animale. Il film allora diventa non un atto d’accusa ma un rituale di espiazione collettiva, dove si mostra l’orrore per poterlo consumare, addomesticare, neutralizzare. Si guarda il mondo storto per poter tornare a casa dritti.
Dal punto di vista etico, il film solleva interrogativi ancora oggi fondamentali su cosa significhi "documentare". Dove finisce la registrazione del reale e inizia la manipolazione? Quando una cinepresa smette di essere testimone e diventa regista? La celebre scena delle tartarughe trascinate alla morte sulla spiaggia (spacciata per evento naturale, ma probabilmente creata ad hoc) è emblematica: se la verità viene costruita per generare reazione, resta ancora verità? E noi spettatori, siamo complici o vittime di questo trucco? Jacopetti difendeva la sua opera dicendo: “noi mostriamo, non giudichiamo”. Ma l’atto stesso di montare, scegliere, ordinare, è già una forma di giudizio. E proprio questa deresponsabilizzazione dell’autore è una delle eredità più velenose del mondo movie: l’idea che si possa mostrare tutto, purché si dica che è “vero”.
Infine, sul piano estetico-tecnologico, Mondo Cane anticipa un’estetica dello shock & awe che diventerà dominante decenni dopo. Ogni clip del film è costruita per ottenere un effetto: stupore, disgusto, risata nervosa, indignazione. Il film sembra sapere già tutto dello psicologismo pubblicitario, delle dinamiche di attenzione del pubblico, della montabilità virale dei contenuti. In questo senso Jacopetti non è solo l’inventore di un genere, ma uno dei primi registi della contemporaneità come la conosciamo oggi, dove il mondo si consuma in frammenti, in loop, in cortocircuiti narrativi che non portano da nessuna parte ma catturano lo sguardo. Con Mondo Cane nasce un cinema che rinuncia a raccontare il senso per raccontare il sensazionale.
Eppure, malgrado tutto, o forse proprio per questo, il film rimane un capolavoro irrisolvibile. Una macchina del tempo che ci riporta a un’epoca in cui tutto sembrava ancora sconosciuto, ma anche una capsula profetica che anticipa il modo in cui guarderemo il mondo nei decenni a venire. Non c’è nulla in Mondo Cane che non sia profondamente sbagliato, eppure proprio in quell’errore sistemico – in quell’ambiguità dolosa, in quella pornografia della realtà travestita da indagine – risiede la sua straordinaria, disturbante, inimitabile potenza.
Rivederlo oggi, quindi, non è solo un esercizio di memoria o una curiosità da cinefili. È anche un modo per confrontarsi con le ambiguità dello sguardo, con la responsabilità di chi riprende e di chi guarda. Mondo Cane ci pone una domanda che continua a risuonare: possiamo davvero raccontare il mondo senza manipolarlo? E quanto del nostro sguardo sul mondo è già, in sé, una forma di violenza?
La risposta, forse, è nella vertigine che si prova di fronte a questo film. Una vertigine che non passa, anche dopo sessant’anni. Perché il cane del titolo non è solo il mondo, ma anche noi, che guardiamo. E forse scodinzoliamo.