Tresoldi aveva già ottenuto ampio riconoscimento con l’installazione nel Parco archeologico di Siponto (2016), dove la rete metallica, solitamente relegata a funzioni industriali e anonime, veniva elevata a medium espressivo capace di rievocare l’architettura paleocristiana della chiesa scomparsa. Tuttavia, se Siponto costituiva un omaggio all’idea di rovina come soglia mnemonica, l’intervento per San Pietro a Bari sembra voler spingere tale tensione oltre, verso una riflessione ancora più radicale sull’assenza come fondamento stesso dell’immaginazione urbana.
I. Il contesto archeologico e storico: una palingenesi di segni
L’area archeologica di San Pietro sorge su uno dei nodi più antichi della città di Bari, là dove il substrato paleocristiano, tardoantico e medievale si incrocia con le stratificazioni successive che hanno riconfigurato il volto urbano nei secoli. In questo senso, non si tratta semplicemente di un sito archeologico isolato, ma di un “campo di forze” in cui il tempo ha lasciato tracce diseguali, disordinate, spesso invisibili ma tuttavia attive. L’archeologia urbana — diversamente da quella rurale o da quella monumentale — non restituisce edifici intatti, ma frammenti, fondazioni, innesti, lacerti. E proprio questi vuoti, queste discontinuità, diventano nella visione di Tresoldi gli elementi da valorizzare, da far risuonare.
Lo spazio dell’intervento non è neutro: è già intriso di una densità semantica che lo rende quasi intrattabile secondo le logiche tradizionali della ricostruzione. Ogni tentativo di reintegrare volumetricamente ciò che fu è destinato al fallimento o alla simulazione. In questa impasse, Tresoldi trova il proprio campo operativo: non restaurare né ricostruire, ma evocare. Non aggiungere materia, ma attivare relazioni. Il suo è un gesto di attualizzazione poetica, più che di restituzione filologica.
II. La grammatica formale della trasparenza
Alla base della poetica plastica di Tresoldi vi è l’elaborazione di un linguaggio che potremmo definire “immateriale nella materia”. La rete metallica, elemento costruttivo umile, viene manipolata con una raffinatezza tale da farla apparire quasi incorporea, simile a un disegno sospeso nell’aria o a un volume tratteggiato dal vento. La scelta di questo materiale non è casuale né semplicemente estetica: essa è portatrice di una riflessione sulla reversibilità, sulla permeabilità, sull’ineffabilità del tempo. A differenza della pietra, che conserva e pretende di durare, la rete accetta la temporaneità, la porosità, il passaggio.
La trasparenza, che nel vocabolario tecnico dell’architettura moderna ha spesso coinciso con l’uso del vetro e della luce come metafora di razionalità, diventa in Tresoldi uno strumento percettivo e filosofico. Essa non mira a rendere tutto visibile, ma a suggerire ciò che non può più essere visto. È una trasparenza che invita a un atto immaginativo, non documentario. In questo senso, l’opera non è una “ricostruzione” nel senso archeologico, ma un’interferenza poetica con lo spazio e il tempo. Il visitatore non si trova di fronte a un edificio, ma dentro un’ipotesi, dentro una domanda che si materializza attraverso il gesto leggero ma insistente della forma.
III. L’assenza come fondamento estetico e politico
Il lavoro di Tresoldi si radica profondamente in una nozione di assenza che va ben oltre il piano iconico o emozionale. L’assenza qui è la condizione ontologica del luogo, ed è al tempo stesso la leva critica dell’intervento. Non a caso, gran parte della teoria contemporanea sull’arte pubblica ha progressivamente abbandonato la logica del “monumento” come oggetto commemorativo per orientarsi verso l’idea di “contro-monumento”, di traccia, di gesto effimero che lascia al pubblico il compito di riempire il vuoto di senso. In questa scia si colloca l’opera di Tresoldi, che rifiuta tanto la monumentalità classica quanto il decorativismo postmoderno, per collocarsi in una zona liminale fra scultura, architettura e linguaggio visivo.
L’opera di San Pietro non dice “qui c’era”, ma “qui forse c’è ancora”. Non impone una visione univoca del passato, ma apre un campo di possibilità interpretative. La rete metallica, lungi dall’essere un semplice simulacro, è un diaframma tra presente e passato, tra storia e immaginazione. Essa restituisce visibilità non a ciò che fu, ma a ciò che potrebbe essere ancora pensato come parte di una continuità culturale. In questa accezione, l’intervento diventa anche un’azione politica: perché mette in discussione la funzione stessa della memoria come costruzione istituzionale, e propone invece una forma di “memoria attiva”, plurale, aperta.
IV. Interazioni urbane e pedagogia del vuoto
Un altro elemento da considerare è la dimensione relazionale e urbana dell’intervento. L’opera non vive isolata, come accade talvolta per installazioni in contesti museali o paesaggistici, ma si integra — anche se per contrasto — nel tessuto sociale e spaziale di Bari Vecchia. In un quartiere che è stato teatro di profonde trasformazioni, tra marginalizzazione e tentativi di rigenerazione, l’inserimento di un’opera d’arte contemporanea in un sito archeologico non è mai neutro. Si tratta di un gesto che può produrre attrito, ma anche riflessione. Tresoldi sembra consapevole di questa dinamica e adotta una postura progettuale che privilegia la sospensione alla presenza, l’apertura al dialogo rispetto all’affermazione.
La sua installazione può essere letta come una “pedagogia del vuoto”: un invito a riconsiderare il rapporto con lo spazio urbano non come mera funzione, ma come esercizio interpretativo. Il vuoto — architettonico, semantico, affettivo — non è più un problema da colmare, ma una risorsa da abitare. Il cittadino, il visitatore, l’abitante temporaneo, vengono così chiamati non alla fruizione passiva, ma alla co-creazione di senso.
V. Un’estetica della soglia: conclusioni provvisorie
Il progetto di Edoardo Tresoldi per l’area archeologica di San Pietro a Bari si impone come un caso emblematico di quella che potremmo definire una “estetica della soglia”. Soglia tra visibile e invisibile, tra presenza e memoria, tra rovina e immaginazione. L’opera non si limita a ornare uno spazio, ma lo trasforma in dispositivo critico: una lente attraverso cui guardare la storia non come sequenza di fatti, ma come campo di interpretazioni possibili. In questo senso, essa non è solo arte, né solo architettura, ma una forma di pensiero spaziale, capace di generare nuove modalità di relazione con il passato e con il presente.
In questo nostro tempo che è della crisi della monumentalità, dell’iperproduzione materiale e della saturazione visiva, l’intervento di Tresoldi propone un altro modo di abitare il tempo e lo spazio: un modo che accetta la lacuna, la fragilità, il frammento come punti di partenza, non come segni di mancanza. È una proposta estetica e insieme etica, che invita a una nuova forma di attenzione, più lenta, più profonda, più responsabile. Non si tratta di ricostruire ciò che è perduto, ma di restituire al tempo la sua forma instabile, cangiante, attraversabile. Un’opera, insomma, che non vuole durare, ma far durare il pensiero.
VI. Rovine come soglia epistemologica: il progetto di Tresoldi alla luce della teoria del restauro critico e del dialogo con la ricerca artistica contemporanea
Per comprendere appieno la portata concettuale dell’intervento di Edoardo Tresoldi nell’area archeologica di San Pietro a Bari, è necessario inserirlo nel quadro più ampio delle riflessioni teoriche che negli ultimi decenni hanno attraversato il campo del restauro architettonico e monumentale. In particolare, risulta utile metterlo in relazione con la cosiddetta teoria del restauro critico, elaborata a partire dagli anni Cinquanta da Cesare Brandi, ma poi sviluppata — e in certi casi radicalmente reinterpretata — da studiosi e progettisti contemporanei, da Giovanni Carbonara a Andrea Pane, da Guglielmo De Angelis d’Ossat a Francesco Venezia.
Brandi, nella sua fondamentale Teoria del restauro (1963), individua nel “riconoscimento dell’opera d’arte come unicum storico e estetico” il nucleo etico della prassi restaurativa, negando tanto la reintegrazione arbitraria quanto la semplice conservazione passiva. Per Brandi, il restauro deve sempre distinguere tra “riconoscibilità” e “mimetismo”: ogni integrazione deve essere percepibile come tale, per non falsificare la testimonianza storica dell’opera. È precisamente in questa tensione — tra ricostruzione e lacuna, tra memoria e intervento — che si iscrive il gesto di Tresoldi. Il suo lavoro non tenta mai di rimettere in scena ciò che è scomparso, ma assume la perdita come parte integrante del discorso spaziale, elaborandola in forma di scrittura leggera, visibile, dichiaratamente artificiale. Non c’è alcuna illusione ottica, nessuna simulazione archeologica: l’opera si presenta come traccia intenzionale, come palinsesto interpretativo, mai come replica.
Ma è nel passaggio dalla teoria del restauro alla pratica del restauro critico — ovvero al modo in cui i principi teorici vengono tradotti operativamente nei cantieri del contemporaneo — che si apre un ulteriore spazio di riflessione. L'intervento di Tresoldi, pur non appartenendo alla disciplina del restauro in senso stretto, ne eredita e rielabora alcune istanze fondamentali: il rispetto della stratificazione, la chiarezza formale dell’intervento, la distinzione netta tra antico e nuovo, e soprattutto la valorizzazione dell’incompiuto come valore conoscitivo. Tuttavia, a differenza di molte operazioni restaurative — che tendono comunque a restituire una forma compiuta, funzionale, leggibile — Tresoldi lavora sul “non-finito” come campo poetico e percettivo: la sua rete non chiude, ma apre. Non colma, ma evidenzia. Non restituisce una forma, ma la possibilità di intravederla.
Questa prospettiva si avvicina a certe pratiche artistiche che, negli ultimi decenni, hanno posto al centro della loro indagine le rovine, la trasparenza, e il dialogo tra tempo storico e spazio contemporaneo. Si pensi, ad esempio, al lavoro di Rachel Whiteread, artista britannica che ha costruito parte della sua carriera realizzando calchi in negativo di interni domestici, sedie, stanze, scale: assenze solidificate, memorie svuotate, spazi che diventano forme, ma che non spiegano nulla — anzi, aprono interrogativi. La celebre House (1993), demolita pochi mesi dopo la sua installazione, è emblematica di questa poetica della scomparsa resa visibile.
Altro nome fondamentale è Gordon Matta-Clark, che negli anni Settanta ha operato incisivamente su edifici abbandonati, sezionandoli, tagliandoli, smontandoli in porzioni visive attraverso cui lo spettatore era costretto a rivedere lo spazio come struttura e metafora. In entrambi i casi, come in Tresoldi, non c’è volontà di “costruire” in senso funzionale o utilitaristico, bensì di interrogare l’architettura come luogo critico, come linguaggio capace di mettere in discussione la relazione tra soggetto, storia e forma.
Un confronto ancor più diretto si può attivare con le ricerche italiane del secondo Novecento e del primo XXI secolo, da Francesco Venezia a Gionata Rizzi, passando per Umberto Riva. Francesco Venezia, in particolare, ha riflettuto a lungo sull’idea di costruire sul costruito, di intervenire sul patrimonio con un gesto che sia insieme discreto e densissimo, capace di rispettare la rovina senza “completarla”, e al tempo stesso di indicare una nuova possibilità di fruizione. Il Teatro di Morgantina in Sicilia, il Museo Archeologico di Gibellina, o il Restauro dell’Area archeologica di Rione Terra a Pozzuoli sono esempi di come l’architettura possa dialogare con le vestigia del passato senza sovrapporsi, ma tracciando percorsi visivi, percettivi e culturali alternativi.
Nel contesto internazionale contemporaneo, si può infine menzionare il lavoro del duo svizzero Herzog & de Meuron, che in progetti come la Tate Modern di Londra o il VitraHaus ha sviluppato una poetica della stratificazione e del dialogo con la memoria industriale, pur declinandola secondo scale e funzioni diverse da quelle di Tresoldi. In senso concettuale, tuttavia, si coglie una comune volontà di fare dell’intervento contemporaneo non una sostituzione del passato, ma una sua apertura, una sua risonanza.
È quindi evidente come l’opera di Edoardo Tresoldi si iscriva all’interno di una costellazione complessa e articolata, dove i confini tra arte, architettura, restauro e pensiero visuale si sfumano e si contaminano. L’artista, pur non appartenendo formalmente a nessuna di queste discipline accademiche in modo esclusivo, riesce a interloquire con ciascuna di esse in maniera profonda, offrendo un contributo che può essere letto tanto come gesto estetico, quanto come riflessione teorica, quanto infine come proposta politica sul modo di abitare la storia.
Tresoldi non propone soluzioni. Propone possibilità. La sua rete metallica è, in fondo, una grammatica dell’ipotetico: il condizionale della memoria, il congiuntivo dello spazio. Un modo per far sì che il vuoto non venga dimenticato, ma rimesso in circolo come domanda. In questo senso, il suo lavoro non è solo un'installazione artistica, ma un dispositivo ermeneutico. E il sito di San Pietro a Bari, con la sua stratificazione mutevole e la sua fragilità esposta, diventa il palcoscenico ideale per questa interrogazione delicata ma radicale, che mette in dialogo la rovina con il desiderio, l’assenza con la forma, e la storia con il pensiero critico del presente.