Nel 1974 Mario Monicelli firma con "Romanzo popolare" una delle sue opere più spietate e disincantate, lontana dalla pura commedia e più vicina a una tragedia borghese in chiave proletaria. Con uno sguardo acuto e amaro, Monicelli destruttura il mito dell'uomo moderno e libertario, scoperchiando la tensione tra ideologia e pulsione, tra affetto e possesso, tra modernità proclamata e mentalità arcaica. Il film, interpretato da Ugo Tognazzi e Ornella Muti, si presta a una riflessione profonda sulle dinamiche del potere affettivo, sull'illusione dell'uguaglianza nei rapporti di coppia e sulla differenza generazionale come metafora di una società in crisi.
I. Il contesto: anni Settanta, disincanto e mutamenti sociali
"Romanzo popolare" si inserisce in un momento storico cruciale: l'Italia degli anni Settanta è attraversata da forti tensioni politiche, lotte operaie, femminismo emergente, e una rivoluzione dei costumi che mette in discussione modelli familiari consolidati. Il personaggio di Giulio Basletti, operaio sindacalizzato, incarna l'ideale dell'uomo di sinistra impegnato, consapevole, che si illude di aver integrato nella propria vita valori progressisti. Ma il suo modo di intendere l'amore rivela un impasto di romanticismo paternalistico, possesso affettivo e insicurezza mascherata da superiorità.
Vincenzina, diciassettenne di provincia, non è ancora del tutto formata, né ideologicamente né emotivamente. È giovane, inesperta, e il suo desiderio d'amore è anche un desiderio di emancipazione. Ma il matrimonio con Giulio, più che un legame affettivo, assume fin da subito i tratti di una prigione dorata, dove la protezione si confonde con il controllo, e la complicità con il paternalismo.
II. L'illusione dell'amore pedagogico
Uno dei nodi centrali del film è la convinzione, da parte di Giulio, che la differenza d'età possa essere colmata con l'educazione. Il suo amore per Vincenzina è sincero ma anche intriso di una presunzione formativa: Giulio la vuole "fare crescere", la porta a teatro, le fa ascoltare musica, le parla con orgoglio di politica e sindacato. Ma non c'è reciprocità in questo scambio: è unidirezionale, didattico, quasi coloniale. Vincenzina non è oggetto di reale ascolto ma destinataria di una presunta verità, di un sapere che non ha chiesto.
L'amore pedagogico di Giulio è dunque una forma sottile di dominio. E quando Vincenzina, curiosa del mondo, fragile ma vitale, si lascia corteggiare da un coetaneo, il castello crolla. Giulio, che si dichiarava pronto a tutto per la libertà, non è in grado di sopportare l'idea di non essere più l'unico oggetto del desiderio della moglie. La sua modernità si rivela cartapesta.
III. Il tradimento come rivelazione
La scena del tradimento, nella sua costruzione narrativa e psicologica, non è solo un incidente di percorso. È la chiave che disvela ciò che il film vuole denunciare: le relazioni sbilanciate, in cui il potere affettivo è in mano a uno solo dei due partner, sono destinate a implodere. Vincenzina non tradisce per crudeltà, ma per necessità esistenziale. Cerca qualcosa che il marito, con tutta la sua bontà e le sue certezze, non può darle: uno scambio tra pari, un desiderio non sorvegliato, uno spazio per l'imprevisto.
Il tradimento, per Giulio, è un affronto intollerabile non tanto per ciò che comporta concretamente, quanto per la ferita narcisistica che infligge al suo ego. La sua reazione è furibonda, sproporzionata, quasi arcaica: la caccia via, con violenza e rancore. Non è più l'uomo moderno che cerca di comprendere, ma il maschio ferito che rivendica il suo potere.
IV. La gelosia come sintomo ancestrale
Uno dei meriti più grandi del film è la rappresentazione nuda della gelosia. Non viene giustificata, né condannata moralisticamente. È mostrata come un dato antropologico, qualcosa che travolge anche i più razionali. Giulio non è un mostro, ma un uomo che si illudeva di avere gli strumenti per dominare se stesso e le emozioni. Monicelli ci dice, con crudezza, che la gelosia è una forza primitiva, che non si lascia addomesticare dalle ideologie.
Nel personaggio di Giulio si incarna lo scacco dell'uomo moderno. La cultura, la politica, l'impegno, non bastano a trasformare il cuore. O almeno non lo fanno automaticamente. C'è un corpo a corpo tra coscienza e pulsione che il film mette in scena con una lucidità disarmante.
V. Vincenzina: vittima o soggetto?
Nel percorso di Vincenzina si leggono molte ambiguità. Da un lato sembra ingenua, trascinata dagli eventi, e vittima di due uomini che, ciascuno a modo suo, la usano. Ma il film suggerisce anche una sua progressiva presa di coscienza. Dopo il crollo dell'amore coniugale e la fuga dell'amante, Vincenzina non cerca protezione. Decide di crescere da sola il figlio, di non tornare indietro.
Questo passaggio è fondamentale. Non è un happy ending, ma una forma embrionale di autonomia. La maternita, che avrebbe potuto essere l'ennesimo vincolo, si trasforma in occasione di responsabilità. Vincenzina si fa adulta, ma senza bisogno di un uomo che la definisca.
VI. Un film sulla fine delle illusioni
"Romanzo popolare" è un'opera sulla fine delle illusioni. Illusioni d'amore, di giustizia affettiva, di modernità. Monicelli non salva nessuno: né l'uomo di sinistra convinto di essere oltre la morale borghese, né la giovane donna convinta che il matrimonio possa essere una via di fuga dal vuoto. Tutti i personaggi fanno i conti con la distanza tra ciò che credevano di essere e ciò che sono davvero.
L'ironia, cifra tipica di Monicelli, qui lascia spazio a una malinconia profonda. La commedia vira al dramma, ma senza diventare patetica. Anzi, la secchezza con cui vengono mostrati i passaggi cruciali del film è ciò che lo rende potente: la scena della cacciata, il silenzio tra i due, l'assenza dell'amante, il vuoto che resta.
VII. Un messaggio ancora attuale
A distanza di cinquant'anni, il film conserva una straordinaria attualità. La questione della differenza d'età nelle relazioni non è scomparsa. Ma soprattutto è ancora viva l'illusione che le buone intenzioni possano bastare a rendere giuste le relazioni. Il film ci mette in guardia da questo ottimismo ingenuo.
In un tempo in cui la retorica della libertà individuale viene spesso confusa con l'indifferenza verso le dinamiche di potere e di genere, "Romanzo popolare" invita a guardare in faccia le contraddizioni. Non basta dirsi moderni: occorre esserlo nei fatti, nelle emozioni, nei gesti quotidiani. E questo, suggerisce Monicelli, è molto più difficile di quanto si pensi.
Conclusione
"Romanzo popolare" è un film duro, vero, necessario. Un film che non si lascia addomesticare dal lieto fine, e che proprio per questo ci parla ancora oggi. La domanda da cui siamo partiti, se un uomo di oltre cinquant'anni possa pretendere un matrimonio felice con una ragazza di diciassette, trova nel film una risposta implicita ma inequivocabile. Non si tratta solo di età anagrafica. Si tratta di ascolto, di rispetto, di simmetria. E quando questi elementi mancano, anche l'amore più appassionato è destinato a trasformarsi in rimpianto, in rancore, in fallimento. Ma forse, anche in una nuova consapevolezza.
Appendice: Note stilistiche e registiche
Da non trascurare infine il linguaggio filmico: la Milano grigia, realistica, lo sguardo partecipe ma disincantato della macchina da presa, le musiche di Enzo Jannacci che fanno da contrappunto emotivo, la prova attoriale magistrale di Ugo Tognazzi, sospeso tra forza e fragilità. Ornella Muti, giovane ma già intensa, restituisce a Vincenzina una gamma di sfumature che vanno ben oltre lo stereotipo della "ragazza facile". Tutti questi elementi concorrono a fare di "Romanzo popolare" non solo un grande film, ma un testo culturale complesso, ancora oggi capace di interrogare il nostro modo di amare, di capire, di crescere.