È la prima volta che una misura di questo tipo viene applicata obbligatoriamente su una piattaforma queer. Ed è solo il primo passo. Il provvedimento si colloca all’interno dell’Online Safety Act, una legge britannica presentata come strumento di tutela dei minori, ma che inaugura in realtà un modello inquietante di controllo digitale delle identità. Un modello in cui desiderare diventa possibile solo se prima si viene riconosciuti, autorizzati, validati da una macchina.
Siamo di fronte a un passaggio epocale. Un punto di svolta silenzioso, quasi invisibile, ma dal potenziale devastante per chiunque appartenga a comunità non normate. Grindr non è solo un’app: è, da anni, un luogo d’esistenza queer, un terreno di libertà mobile, talvolta contraddittoria, ma insostituibile. Vederlo diventare un checkpoint digitale rappresenta qualcosa di più profondo di una svolta normativa: è la trasformazione del desiderio in procedura.
La narrativa ufficiale è semplice: la verifica serve a impedire che minorenni accedano a contenuti o ambienti per adulti. Una misura apparentemente ragionevole. Ma le implicazioni sono tutt’altro che neutre. L’azienda incaricata della verifica è FaceTec, una società privata americana che si occupa di riconoscimento facciale, autenticazione biometrica e sicurezza digitale. Garantisce la protezione dei dati e la cancellazione delle informazioni sensibili. Ma chi sorveglia il sorvegliante?
La retorica della “tutela” è il cavallo di Troia con cui si legittimano forme sempre più pervasive di schedatura. E mentre si impongono standard elevatissimi a Grindr, app eterosessuali come Tinder, Hinge o Bumble continuano a operare senza vincoli simili. Questo doppiopesismo normativo alimenta un sospetto legittimo: che la questione non sia la sicurezza, ma il tipo di desiderio che si intende regolare.
La sessualità queer, ancora una volta, viene trattata come qualcosa di intrinsecamente pericoloso. Da delimitare, sorvegliare, controllare. Il problema non è il porno, né la nudità, né il rischio minorile in sé: il problema è il fatto che, su Grindr, due uomini possano trovarsi per fare sesso consensuale senza che lo Stato li veda. È questo che va regolamentato: la possibilità dell’incontro senza mediazione istituzionale.
Non è un caso isolato. Né un fatto nuovo. Il sospetto nei confronti della sessualità queer attraversa la storia moderna come una corrente carsica, che affiora nei momenti di crisi o di riorganizzazione normativa. Dalla criminalizzazione dell’omosessualità sotto l’ordine vittoriano, alla psichiatrizzazione nel Novecento, fino alle più recenti forme di sorveglianza digitale, la logica è sempre la stessa: il desiderio non normato è un problema da contenere.
Nel Regno Unito, la storia del “Pink Scare” – l’epurazione sistematica di impiegati statali omosessuali negli anni ’50 – rivela quanto sia profonda l’associazione tra omosessualità e vulnerabilità alla sorveglianza. Si temeva che “i gay” potessero essere ricattabili, dunque pericolosi. Ma il paradosso è che il rischio di ricatto esiste proprio perché l’identità è stigmatizzata, non per la sua natura intrinseca.
Oggi, quel sospetto si ripresenta in una forma tecnocratica. Non si parla più di vizio, ma di rischio. Non si dice più “immorale”, ma “non verificato”. Eppure il cuore pulsante della dinamica resta lo stesso: la pulsione queer deve essere messa sotto controllo, messa in ordine, resa leggibile e tracciabile.
Per anni, le lotte LGBTQ+ hanno rivendicato visibilità. Oggi, quella visibilità viene imposta. L’obbligo di mostrare il volto per entrare in un’app queer segna il passaggio da una visibilità conquistata a una visibilità forzata. Ed è qui che si apre un altro problema enorme: cosa significa per un ragazzo non ancora out, per un migrante queer in un Paese ostile, per una persona trans che non ha ancora aggiornato i documenti, dover “dimostrare chi è” per accedere a uno spazio di socialità?
Significa essere esclusi. Significa rinunciare. Significa venire cancellati da un luogo che, forse, era l’unico punto di contatto con una comunità. In nome della sicurezza, si escludono proprio i soggetti più vulnerabili: quelli che non possono permettersi di essere visibili, quelli che non sono “identificabili” nei termini normativi richiesti.
E poi: cosa accade ai dati? Chi conserva quelle immagini? Chi le incrocia con altri database? Quali futuri algoritmi predittivi potranno servirsi di quei volti, di quei desideri, di quei percorsi? L’identificazione non è mai neutra. È un atto politico. E spesso è un atto irreversibile.
Grindr, nella sua versione originaria, era un’app imperfetta ma rivoluzionaria. Permetteva, con tutti i suoi limiti e le sue ambiguità, un certo grado di anonimato. Il profilo poteva essere privo di foto, il nome un alias, la posizione approssimativa. In quel margine, spesso confuso e contraddittorio, si apriva uno spazio autentico: l’ombra del desiderio.
Oggi quell’ombra viene illuminata a forza. Viene sostituita da uno spazio dove ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo digitale viene registrato, verificato, incrociato, archiviato. Si perde la possibilità di sperimentare il sé, di fingere, di oscillare. La grammatica queer si basa sulla fluidità, sulla maschera, sul travestimento, sull’inversione. Il dispositivo biometrico è, al contrario, un meccanismo d’irrigidimento.
Questo cambiamento toglie aria. Toglie possibilità. Trasforma il desiderio in curriculum, l’incontro in schedatura, il corpo in documento.
Viviamo in una cultura ossessionata dalla trasparenza. Ma non è la trasparenza come diritto: è una pornografia della trasparenza, in cui ogni aspetto della vita deve essere visibile, tracciabile, analizzabile. È una cultura in cui si è costretti a raccontarsi, a dichiararsi, a spiegarsi continuamente. “Chi sei? Che genere sei? Che orientamento hai? Mostra il volto. Carica un documento. Dimostra di avere diritto a desiderare.”
Il dispositivo biopolitico contemporaneo non ti impedisce di desiderare. Ti chiede di farlo a certe condizioni. Ti concede la libertà di incontrare altri, purché tu sia identificabile, prevedibile, controllabile. La logica della tutela diventa logica di profilazione.
Siamo di fronte a un cambio di paradigma. Dalla sessualità come problema morale, alla sessualità come problema di sicurezza. Il corpo non è più peccaminoso, è semplicemente non regolato. Ed è in questo non-regolamento che la macchina normativa s’infila.
Nel frattempo, anche l’Italia osserva. E imita. L’AGCOM ha già annunciato che entro il 2026 verranno introdotti sistemi di verifica dell’età per tutti i siti per adulti. Si tratterà, con ogni probabilità, di dispositivi simili a quelli britannici. Il rischio è che l’intera architettura del desiderio digitale europeo venga ristrutturata a partire dal principio dell’identificazione obbligatoria.
Cosa accadrà, allora, ai forum erotici, ai blog queer, agli archivi indipendenti, ai siti di incontri autogestiti? Come sopravviveranno le forme più fragili e meno istituzionali del desiderio queer in rete? Saranno assorbite, cancellate, rimosse? O diventeranno spazi clandestini, come le saune o i cessi pubblici un tempo, invisibili ai radar della moralità istituzionale?
Il corpo queer ha sempre saputo nascondersi. Ma ha anche diritto a esistere alla luce del giorno senza essere schedato.
Questo testo non può chiudersi con una soluzione. Non esiste una risposta semplice. Ma possiamo nominare il pericolo: quello di un futuro in cui ogni desiderio dovrà essere autorizzato, ogni incontro certificato, ogni corpo riconosciuto da una piattaforma. Un mondo in cui la sessualità non è più vissuta, ma processata.
Grindr non è perfetto. Non lo è mai stato. Ma vederlo diventare l’avamposto di una nuova frontiera tecnologica del controllo è un segnale preciso. E non possiamo ignorarlo. Perché non si tratta solo di un’app. Si tratta di come e dove possiamo ancora desiderare. E con quali conseguenze.
Forse il gesto più radicale oggi è reclamare il diritto a non essere identificati. A non essere leggibili. A non essere trasparenti.
Perché il desiderio – quello vero – non si fa mai riconoscere. E forse è proprio per questo che ci dà così fastidio.