Non è facile per noi, abituati a concepire l'arte come qualcosa di autonomo, come un valore che si staglia al di sopra delle funzioni pratiche, immaginare come i Greci percepissero la creazione artistica. Nel loro vocabolario non esisteva una parola che corrispondesse alla nostra idea di “arte”. La nozione di téchne, spesso tradotta come “tecnica”, era al centro del loro pensiero: non un semplice insieme di regole o abilità pratiche, ma un sapere che implicava comprensione e finalità. La téchne era, in sostanza, la capacità di produrre qualcosa che fosse agathòs—un termine che oggi potremmo tradurre come “buono”, ma che, nel contesto greco, significava molto di più: ciò che è utile, appropriato, adatto al suo scopo. Non è un caso che agathòs fosse lo stesso aggettivo usato per descrivere il soldato valoroso, la cui virtù non risiedeva in un astratto ideale di perfezione, ma nella sua abilità di combattere con onore e determinazione.
Questo modo di pensare alla qualità di un’opera, di un’azione o persino di una persona come strettamente legata alla sua funzione, ha avuto una profonda influenza sulla cultura occidentale, anche se spesso ce ne dimentichiamo. Ancora oggi, nella nostra lingua, sopravvivono tracce di questa eredità greca. Quando diciamo «un bel piatto di spaghetti», non ci riferiamo alla sua bellezza estetica, ma al fatto che è ben cucinato, appetitoso, un’espressione perfetta della ricetta. In questa frase apparentemente semplice si nasconde una visione filosofica che sottolinea la relazione tra la bontà e la capacità di rispondere a un bisogno o a un desiderio. È come se, senza saperlo, continuassimo a essere i custodi di una saggezza antica, una saggezza che gli italiani, in particolare, sembrano incarnare nel loro modo di vivere e parlare.
Ma questa relazione tra utilità e bellezza va ben oltre il contesto culinario. Essa riguarda il nostro rapporto con il mondo e con ciò che creiamo. Non è solo una questione di estetica, ma di senso, di significato. I Greci non separavano il bello dall’utile, perché per loro la bellezza non era un fine in sé, ma il risultato di un’armonia intrinseca, di una rispondenza tra forma e funzione. Questa idea, così diversa dalla nostra tendenza moderna a considerare l’arte come qualcosa di distaccato dalla vita quotidiana, ci invita a riflettere su ciò che consideriamo “bello” e perché. Non è forse vero che le cose che troviamo davvero belle sono quelle che, in qualche modo, ci parlano della loro perfezione nel fare ciò per cui sono state create? Un paesaggio, un edificio, una melodia: non sono forse belli perché sembrano possedere una qualità di completezza, come se esistessero proprio così come devono essere?
Ecco perché affermare che “la bellezza salverà il mondo” rischia di essere un’illusione romantica. La bellezza, di per sé, non ha bisogno di essere salvata: essa esiste indipendentemente da noi, come un riflesso dell’ordine naturale o del nostro impegno creativo. Siamo noi che abbiamo il compito di preservarla, di proteggerla dagli abusi e dalle devastazioni che spesso derivano dalla nostra incuria o dal nostro egocentrismo. La vera sfida non è attendere che la bellezza ci salvi, ma imparare a riconoscerla e a difenderla, a fare spazio perché possa fiorire. Questo significa tornare al concetto greco di téchne: non solo come abilità tecnica, ma come un sapere che unisce il pensiero e l’azione, il fare e il contemplare, in un equilibrio che è esso stesso bellezza.
In questo senso, la nostra responsabilità verso la bellezza è anche una responsabilità verso noi stessi. Non possiamo limitarci a consumare ciò che è bello; dobbiamo partecipare attivamente alla sua creazione, alla sua tutela. Salvare la bellezza significa salvare la nostra capacità di vedere il mondo non solo come un luogo di sfruttamento, ma come uno spazio di meraviglia, di significato. E in questo tentativo, forse, possiamo trovare non solo la nostra redenzione, ma anche la possibilità di un mondo migliore. Un mondo in cui la bellezza, come l’eco di una saggezza antica, continui a guidarci verso ciò che è davvero agathòs: buono, giusto, e profondamente umano.