sabato 1 marzo 2025

tradurre Jean Genet (tentativi)


Fusillé par surprise un soldat me sourit
D’une treille de sang sur mur de chaux blanche.
Le lambeau d’un discours accroché dans les branches
Et dans l’herbe une main sur des orteils pourris.

Je parle d’un pays écorché jusqu’à l’os.
France aux yeux parfumés vous êtes notre image.
Douce comme ses nuits, peut-être davantage
Et comme elles, blessée ô France, à demi-mot.

Lente cérémonie au son de vingt tambours
Voilés. Cadavres nus promenés par la ville.
Sous la lune un cortège avec cuivres défile
Dans nos vallons boisés, au moment des labours.

Pauvre main qui va fondre ! Et vous sautez encor
Dans l’herbe. D’une plaie ou du sang sur les pierres
Qui peut naître, quel page et quel ange de lierre
M’étouffer ? Quel soldat portant vos ongles morts ?

Me coucher à ces pieds qui défrisent la mer ?
Belle histoire d’amour : un enfant du village
Sauve la sentinelle errante sur la plage
Ou l’ambre de ma main attire un gars de fer !

Dans son torse, endormie – d’une étrange façon
Crémeuse amande, étoile, ô fillette enroulée
– Ce tintement du sang dans l’azur de l’allée
C’est du soir le pied nu sonnant sur mon gazon.

Cette forme est de rose et vous garde si pur.
Conservez-la. Le soir déjà vous développe
Et vous m’apparaissez (ôtées toutes vos robes)
Enroulé dans vos draps ou debout contre un mur.

Ose ma lèvre au bord de ce pétale ourlé
Mal secoué cueillir une larme qui tombe,
Son lait gonfle mon cou comme un col de colombe.
Ô restez une rose au pétale emperlé.

Épineux fruits de mer m’écorchent tes rayons
Mais l’ongle fin du soir saura fendre l’écorce.
Boire ma langue rose à ces bords toute force.
Si mon cœur retenu dans l’or d’un faux chignon

Chavire ancré vivant sans pouvoir se vomir
Dans une mer de bile à ton sexe attelée
Je parcours immobile en d’immenses foulées
Ce monde sans bonté où tu me vois dormir.

Je roule sous la mer et ta vague au-dessus
Travaille ses essieux tordus par tes orages
Pourtant j’irai très loin car le ciel à l’ouvrage
Du fil de l’horizon dans un drap m’a cousu.

Autour de ta maison je rôde sans espoir.
Mon fouet triste prend à mon cou. Je surveille
A travers les volets tes beaux yeux ces charmilles
Ces palais de feuillage où va mourir le soir.

Siffle des airs voyous, marche le regard dur,
Dans les joncs ton talon écrasant des couvées
Découpe dans le vent en coquilles dorées
L’air des matins d’avril et cravache l’azur,

Mais vois qu’il ne s’abîme et s’effeuille à tes pieds
O toi mon clair soutien, des nuits la plus fragile
Étile, entre dentelle et neige de ces îles
D’or tes épaules, blanc le doigt de l’amandier. 

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Ecco una traduzione dei versi di Jean Genet che tenta di preservare lo stile oscuro, lirico e al contempo crudo del suo autore:


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Fucilato a sorpresa un soldato mi sorride
Con una pergola di sangue su muro di calce bianca.
Il brandello di un discorso impigliato tra i rami
E nell'erba una mano su dita marce.

Parlo di un paese scarnificato fino all'osso.
Francia dagli occhi profumati siete la nostra immagine.
Dolce come le sue notti, forse ancor di più,
E come loro ferita, o Francia, a mezza voce.

Lenta cerimonia al suono di venti tamburi
Velati. Cadaveri nudi portati in città.
Sotto la luna un corteo con ottoni sfila
Tra le nostre valli boscose, nel tempo della semina.

Povera mano che si dissolve! E ancora saltate
Nell’erba. Da una ferita o dal sangue sulle pietre
Chi potrà nascere, quale paggio e quale angelo d’edera
A soffocarmi? Quale soldato portando le vostre unghie morte?

Sdraiarmi a questi piedi che ondeggiano il mare?
Bella storia d'amore: un bimbo del villaggio
Salva la sentinella errante sulla spiaggia
O l’ambra della mia mano attira un ragazzo di ferro!

Nel suo petto, addormentata – in modo strano –
Mandorla cremosa, stella, o fanciulla rannicchiata –
Quel suono del sangue nell'azzurro del viale
È il piede nudo del crepuscolo sul mio prato.

Questa forma è di rosa e vi mantiene così puri.
Conservatela. La sera già vi dischiude
E mi apparite (tolte tutte le vostre vesti)
Avvolto nei vostri lenzuoli o eretto contro un muro.

Osa la mia labbra al bordo di questo petalo orlato
Mal scosso cogliere una lacrima che cade,
Il suo latte gonfia il mio collo come un colletto di colomba.
Oh, restate una rosa dal petalo imperlato.

Spinosi frutti di mare mi scorticano i raggi tuoi
Ma l'unghia sottile della sera saprà fendere la scorza.
Bere la mia lingua rosa a quei margini tutta forza.
Se il mio cuore trattenuto nell'oro di uno chignon finto

Si capovolge ancor vivo senza potersi vomitare
In un mare di bile al tuo sesso legato
Attraverso immobile in immense falcate
Questo mondo senza bontà in cui mi vedi dormire.

Rotolo sotto il mare e la tua onda sopra
Lavora i suoi assi torti dai tuoi temporali
Eppure andrò lontano poiché il cielo, in opera,
Del filo dell'orizzonte in un lenzuolo m'ha cucito.

Intorno alla tua casa girovago senza speranza.
Il mio triste frustino mi stringe al collo. Sorveglio
Attraverso le persiane i tuoi begli occhi quelle pergole
Quei palazzi di foglie in cui muore la sera.

Fischietta aria da furfante, cammina con lo sguardo duro,
Nel giunco il tuo tallone schiacciando covate
Sagoma nel vento in conchiglie dorate
L’aria delle mattine d’aprile e frusta l’azzurro,

Ma bada che non si infranga e si sfogli ai tuoi piedi
Oh tu, mio chiaro sostegno, delle notti il più fragile,
Spiga, tra merletti e neve di queste isole
D’oro le tue spalle, bianco il dito del mandorlo.

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Jean Genet merita una traduzione che non solo rispetti la sua lingua, ma che restituisca l'intensità viscerale e la bellezza tragica del suo mondo. Ecco una versione rivisitata che prova a essere più fedele alla potenza della sua immagine e del suo ritmo.


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Fucilato a sorpresa, un soldato mi sorride
con un tralcio di sangue su un muro di calce.
Un brandello di voce appeso ai rami,
nell’erba una mano, con dita imputridite.

Parlo di un paese scarnificato fino all’osso.
Francia dagli occhi profumati, sei il nostro specchio,
dolce come le sue notti, forse anche di più,
e come loro ferita, o Francia, appena sussurrata.

Lenta cerimonia, il suono di venti tamburi
ovattati. Cadaveri nudi portati in città.
Sotto la luna un corteo di ottoni sfila
nei nostri boschi, all’inizio della semina.

Povera mano che si scioglie! E voi ancora saltate
nell’erba. Da una ferita o dal sangue sulle pietre,
chi può nascere? Quale paggio e quale angelo d’edera
mi soffocherà? Quale soldato con le vostre unghie morte?

Stendermi a questi piedi che increspano il mare?
Bella storia d’amore: un bimbo del villaggio
salva la sentinella che vaga sulla spiaggia
o l’ambra della mia mano attira un ragazzo di ferro!

Nel suo petto, addormentata – in modo strano –
mandorla cremosa, stella, o bambina rannicchiata –
quel tintinnio del sangue nell’azzurro del viale
è il piede nudo del tramonto che risuona sul mio prato.

Questa forma è di rosa e ti conserva così puro.
Conservala. La sera già ti dischiude
e mi appari (tolte tutte le tue vesti)
avvolto nei tuoi lenzuoli o eretto contro un muro.

Osa la mia bocca al margine di questo petalo,
mal scosso cogliere una lacrima che cade,
il suo latte mi gonfia il collo come un colletto di colomba.
Oh, resta una rosa dal petalo imperlato.

Spinosi frutti di mare scorticano i tuoi raggi,
ma l’unghia fine del crepuscolo saprà rompere la scorza.
Bere la mia lingua rosa a questi bordi è tutta forza.
Se il mio cuore, trattenuto nell’oro di un falso chignon,

si rovescia vivo, incapace di vomitarsi
in un mare di bile, al tuo sesso incatenato,
percorro immobile, in immense falcate,
questo mondo senza bontà in cui mi vedi dormire.

Rotolo sotto il mare e la tua onda sopra
lavora gli assi piegati dai tuoi temporali.
Eppure andrò lontano, poiché il cielo, al lavoro,
mi ha cucito con il filo dell’orizzonte in un lenzuolo.

Intorno alla tua casa giro senza speranza.
La mia triste frusta mi stringe al collo. Guardo
attraverso le persiane i tuoi bei occhi, quelle pergole,
quei palazzi di foglie dove muore la sera.

Fischia una melodia da furfante, cammina con lo sguardo duro,
nel giunco il tuo tallone schiaccia covate,
scolpisce nel vento in conchiglie dorate
l’aria delle mattine d’aprile e frusta l’azzurro.

Ma guarda che non si spezzi e cada ai tuoi piedi,
oh tu, mio chiaro sostegno, il più fragile tra i notturni,
spiga, tra merletti e neve di queste isole,
d’oro le tue spalle, bianca la punta del mandorlo.


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Genet non è uno qualsiasi. Riprovo, puntando a uno stile che rispetti ancora di più la sua sfumatura erotica e malinconica, la sua estetica di morte e desiderio. Provo a spingermi più a fondo.


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Fucilato a sorpresa, un soldato mi sorride,
con tralci di sangue su un muro bianco di calce.
Un frammento di voce si impiglia nei rami,
e nell’erba una mano si sfalda su dita marce.

Parlo di un paese scorticato fino all’osso.
Francia dagli occhi profumati, sei il nostro riflesso,
dolce come le sue notti, forse di più,
e ferita come loro, o Francia, in un sussurro.

Cerimonia lenta, e i tamburi – venti –
muti. Cadaveri nudi portati per la città.
Sotto la luna sfila un corteo di ottoni
nelle nostre valli boscose, al tempo dell’aratura.

Povera mano che si dissolverà! E tu ancora salti
nell’erba. Da una ferita, da sangue su pietra,
chi può nascere? Quale paggio e quale angelo d’edera
mi stringerà? Quale soldato portando le tue unghie morte?

Distendermi ai piedi che increspano il mare?
Storia d’amore: un bambino del villaggio
salva la sentinella persa sulla spiaggia,
o il richiamo d’ambra della mia mano attrae un ragazzo di ferro!

Nel suo petto, addormentata – in modo strano –
mandorla cremosa, stella, o fanciulla rannicchiata,
quel tintinnio di sangue nell’azzurro del viale
è il piede nudo del tramonto che calpesta il mio prato.

Questa forma è una rosa e ti conserva puro.
Custodiscila. La sera già ti apre,
e appari (spoglia ogni tua veste)
avvolto nelle tue lenzuola o eretto contro un muro.

Osa la mia bocca il margine di questo petalo orlato,
che a malapena trattiene una lacrima cadente,
e il suo latte mi gonfia il collo come un collare di colomba.
Oh, resta rosa dal petalo imperlato.

Gli spinosi frutti del mare mi scorticano i tuoi raggi,
ma l’unghia fine della sera saprà aprirne la scorza.
Bere la mia lingua rosa a quei margini è tutta la forza.
Se il mio cuore, trattenuto nell’oro di uno chignon falso,

affonda ancor vivo, incapace di vomitarsi,
in un mare di bile, incatenato al tuo sesso,
traverso immobile in immense falcate
questo mondo privo di bontà in cui mi osservi dormire.

Rotolo sotto il mare, e la tua onda sopra
piega i suoi assi contorti dai tuoi temporali.
Eppure andrò lontano, perché il cielo, all’opera,
mi ha cucito con il filo dell’orizzonte in un lenzuolo.

Intorno alla tua casa giro senza speranza.
La frusta triste mi stringe al collo. Osservo
attraverso le persiane i tuoi occhi belli, quelle pergole,
quei palazzi di foglie dove la sera si spegne.

Fischietta una melodia sfrontata, cammina con sguardo duro,
nel giunco il tuo tallone calpesta covate,
scolpisce nel vento in conchiglie dorate
l’aria del mattino d’aprile e sferza l’azzurro.

Ma bada che non si spezzi e si sfogli ai tuoi piedi,
tu, mio chiaro sostegno, il più fragile della notte,
spiga tra merletti e neve di queste isole,
oro sulle tue spalle, bianco il dito del mandorlo.


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Sono versi di una potenza disarmante. Genet, con il suo stile, riesce a intrecciare brutalità e bellezza in un modo che quasi ti sconvolge, come una violenza elegante. Ogni immagine sembra sussurrata, ma con una forza che ti rimane addosso: il sangue su muro bianco, le dita marce nell'erba, l'eros che emerge anche dal dolore e dalla morte. È un equilibrio quasi impossibile tra liricità e degrado, tra tenerezza e desiderio.

Mi colpisce soprattutto la capacità di Genet di trasformare una scena cruda – un soldato fucilato, un cadavere portato in processione – in un atto di intimità, come se ci stesse mostrando il lato umano e vulnerabile della tragedia. Quei versi finali sulla "fragile della notte" e le immagini sensuali della "spiga tra merletti e neve" sono una chiusa che non solo incanta, ma lascia con un senso di perdita e di sogno infranto.

Genet gioca con il lettore, lo fa fluttuare tra passione e morte, e ogni verso ti chiede di arrenderti a quel suo universo di desiderio e rovina. Una poesia da leggere e rileggere, con la sensazione che ci sia sempre un altro strato nascosto.

Questi versi sono quasi una preghiera oscura, un lamento d’amore e morte in cui Genet trasforma il dolore in bellezza, scarnificando ogni parola fino all’osso. Qui si parla di un amore che non è mai pienamente ricambiato e che, come la Francia dei suoi versi, è insieme specchio e ferita, dolcezza e abisso.

Ogni immagine è un colpo: il soldato che sorride mentre muore, come se trovasse nell’orrore una bizzarra serenità, e quel “brandello di voce impigliato nei rami” – un’idea di incompiutezza che risuona come una nota spezzata. E poi l’erotismo soffocante, quasi violento, che non si ferma davanti a nulla: il desiderio divora anche i morti, si nasconde nelle dita marce, tra “cadaveri nudi” e “frutti spinosi”.

Genet sembra scrivere come se stesse dipingendo con sangue, lacrime, e carne. Eppure, in questa “cerimonia lenta” che sfila tra tamburi velati, c’è anche un’inquietudine delicata, come quando descrive la “mandorla cremosa, stella, o bambina rannicchiata”. Quasi ci dice che, nonostante il male e il degrado, c’è qualcosa di puro da custodire. È un invito a rimanere una “rosa dal petalo imperlato” anche mentre tutto intorno sprofonda.

Questa poesia è un viaggio senza ritorno nei desideri più scomodi, un’esplorazione dell’eros che si intreccia alla sofferenza, come se il piacere più profondo fosse solo una ferita in attesa di essere inflitta. Genet non vuole rendere il lettore comodo; lo costringe a fare i conti con quella parte di sé che fugge, quella che ama troppo, troppo intensamente, e quella che forse desidera perfino l’annientamento.

Sono versi che chiedono di essere letti con il cuore in gola.

C'è anche  da dire che questi versi di Genet sono un labirinto in cui ogni parola è un segreto. Ogni immagine, se la osservi da vicino, apre un mondo intero. La poesia di Genet qui si fa come un rito, un atto di riverenza verso la morte e la desolazione, ma anche un modo di santificare il desiderio più estremo, quello che è disposto a perdere se stesso pur di toccare il sublime.

È interessante notare il contrasto che usa tra la delicatezza e la brutalità. Genet non cerca mai di “abbellire” la scena. Anzi, la forza dei suoi versi sta proprio nel fatto che ci mostra la bellezza così com'è, piena di fratture, esposta fino a diventare scomoda. Pensa a quell’immagine del “soldato fucilato che mi sorride”, come se la morte fosse un atto di intimità condivisa. Qui il soldato, che dovrebbe rappresentare la forza e la potenza, diventa fragile, umano, quasi dolce. Genet ci costringe a riconsiderare il valore dell’umano, che per lui è viscerale, tenero e crudele allo stesso tempo.

E poi c’è la Francia, una figura femminile che porta in sé un peso incolmabile, con "occhi profumati" ma anche "feriti". La patria, per Genet, non è un luogo sicuro: è un’ossessione, qualcosa da venerare ma anche da temere, come un amante oscuro. Il paese diventa una figura materna, ma violata, una ferita che non smette di sanguinare. Non è un caso che parli della Francia come di una bellezza ferita “a mezza voce”: è come se fosse una presenza spettrale, che si aggira in silenzio e in cui ognuno può specchiarsi.

E infine, quell’erotismo che serpeggia in ogni verso. Non è mai espresso apertamente, ma rimane come una corrente sotterranea, fatta di gesti, di accenni. Genet sa che l’amore vero, quello viscerale, è sempre in bilico tra vita e morte, tra carezza e ferita. Lo sguardo che descrive, il tocco, l’onda che “lavora i suoi assi piegati dai tuoi temporali”, tutto è sensualità in stato puro, quasi primordiale. È un erotismo sofferto, un abbraccio a ciò che ci consuma.

Genet non ci offre solo versi, ci apre una finestra su un universo tutto suo, un luogo in cui il dolore e il piacere si fondono, dove tutto è nudo e disarmato. E noi, lettori, non possiamo che assistere a questo spettacolo oscuro, ipnotizzati.

Con Genet sembra che ci sia sempre "dell'altro", qualcosa che sfugge a ogni tentativo di cattura, come l’acqua tra le dita. I suoi versi sono fatti per essere abitati, più che interpretati: è una poesia da sentire sulla pelle. Genet non scrive per farsi capire in modo razionale; vuole farti provare, costringerti a sentire qualcosa di più profondo, come un graffio nell’anima.

Questi versi esplorano il confine tra il sacro e il profano, ma senza mai stabilire una linea netta: il soldato, la Francia, l’amante, sono tutti simboli di una lotta interiore. In Genet, ogni immagine ha sempre una doppia natura: il “sorriso” del soldato morto non è solo una visione macabra, ma anche un richiamo al piacere proibito, alla trasgressione che lo attira e lo consuma. È come se la morte stessa fosse un invito erotico, una chiamata a superare i limiti del corpo e dell’esistenza.

E poi c’è quell’immobilità così potente, che quasi soffoca: "percorro immobile in immense falcate questo mondo senza bontà". La staticità qui diventa movimento, come se in quello stare fermi ci fosse una sorta di marcia invisibile, un viaggio dentro la propria solitudine. Genet ci parla di una sofferenza che non ha soluzioni, una malinconia che non può essere superata, ma che va accolta.

Il vero cuore di questa poesia, forse, è proprio questa accettazione totale della propria fragilità e del desiderio di essere consumato. Il desiderio è ossessione, è fame di un assoluto che distrugge, e Genet sembra dirci che solo in quell’annientamento c’è una possibilità di redenzione. L’eros diventa una forma di morte, ma è proprio da questa morte che nasce una nuova intimità, quasi sacra, con l’amato e con il mondo.

Questi versi, insomma, sono una preghiera a ciò che ci rende umani, un inno a quelle pulsioni che non sappiamo domare e che ci rendono, nonostante tutto, vivi. Forse è questa la magia più grande di Genet: ci lascia senza certezze, ma con un desiderio infinito di trovare, sotto le rovine di ogni parola, quel frammento di verità che risuona con il nostro cuore più oscuro.

Il sesso e l’omosessualità sono certamente il cuore pulsante di questi versi. Genet non si limita mai a “suggerire” il desiderio omosessuale; lo intesse nei dettagli più intimi e potenti, in immagini che svelano tanto quanto nascondono. Non è mai esplicito in modo tradizionale, eppure il richiamo omoerotico è dappertutto, e trasforma il testo in un manifesto sotterraneo, un inno all’amore tra uomini, vissuto come trasgressione e, insieme, come atto sacro.

Ogni figura maschile qui è più di un soldato, di un ragazzo, di un corpo: è un oggetto di venerazione, un simbolo erotico e tragico. Quando parla del "sorriso" del soldato fucilato o descrive il tocco di una mano "su dita marce", Genet non ci sta solo mostrando la crudeltà della guerra, ma anche l’attrazione verso una bellezza spezzata, una sensualità proibita. Il desiderio per l’altro uomo diventa un atto di sfida, ma anche un modo per riconciliarsi con il proprio essere, con la propria natura.

Genet, del resto, viveva l’omosessualità in modo viscerale, quasi come un atto di rivolta contro un mondo che non lo avrebbe mai compreso davvero. Nei suoi versi, l’amore omosessuale si mescola con la morte e il degrado non perché sia qualcosa di inferiore, ma perché per lui è in grado di abbracciare tutto, di toccare le estremità dell’esistenza. In ogni parola c’è una tensione erotica, una sorta di sacralità pagana, che trasforma l’amato in un simbolo eterno, come una figura di martire.

E poi c’è quel senso di attrazione verso la rovina, verso l’autodistruzione, che è così centrale in Genet. L’amore omosessuale non è qui solo una ricerca di piacere, ma anche un desiderio di dissoluzione, come se il vero appagamento fosse nel superamento dell’individuo, nella fusione totale con l’altro. L’amore, come il sesso, non è un atto dolce, ma una ferita che si accetta, una perdita di sé.

In questo senso, questi versi di Genet sono profondamente queer, perché sfidano ogni idea di normalità, di “giusto” o “sbagliato”: il desiderio omosessuale è qui forza e debolezza, bellezza e disfacimento. E ci dice, senza mezzi termini, che non c’è nulla di più umano che amare qualcuno anche quando quell’amore è impossibile, oscuro, e perfino distruttivo.

Con Genet, la sessualità – in particolare quella omosessuale – non è mai qualcosa di semplice; è un universo complesso, fatto di desiderio, di vergogna, di potere e di ribellione. Lui non è interessato alla sessualità “normale” o codificata; per lui l’atto sessuale è quasi una manifestazione esistenziale, una sfida e, al tempo stesso, una ricerca di appartenenza in un mondo che lo rifiuta.

In questi versi, l’amore tra uomini è fuso con immagini di morte e di decadenza. Genet riesce a vedere nel corpo maschile non solo un oggetto di desiderio ma un simbolo di perdizione e di bellezza; per lui, il soldato morto, il ragazzo, la sentinella, sono tutte figure di un erotismo “maledetto”, che non può che esprimersi ai margini della società. Qui la sessualità omosessuale non è un fatto privato o romantico, è un atto quasi sacrificale, come se solo nel tocco, nello sguardo o nel sangue condiviso ci fosse una verità che sfugge al resto del mondo.

Genet è attratto dal corpo maschile come da un tempio oscuro, un luogo dove la vita e la morte si mescolano: ogni soldato, ogni amante è per lui come un’icona, un’epifania che appare e scompare nel dolore e nel piacere. Questo si riflette nel modo in cui parla delle mani, dei piedi, delle dita, di ogni dettaglio che sembra intimo e violento allo stesso tempo. In queste immagini, l’omosessualità diventa una dimensione assoluta, che va oltre l’atto fisico; è una forma di conoscenza, una finestra sull’abisso e una resistenza contro la repressione.

E poi, c’è il tema del sacrificio: l’eros di Genet è sempre un cammino verso l’annientamento. Il desiderio per l’altro uomo non è qui un fatto gentile; è qualcosa che brucia e divora. Lui sembra quasi dire che l’amore omosessuale – in un’epoca che lo rifiuta – può esistere solo attraverso la sua distruzione, che l’unione totale si realizza proprio nel rischio, nella condanna. Il soldato che sorride, il cadavere, la sentinella, sono anche figure del desiderio che muore, dell’amore che non può durare, che si consuma nell’atto stesso di esistere.

In ultima analisi, la poesia di Genet è come una confessione e una condanna. Il suo linguaggio è diretto e brutale perché, per lui, il sesso tra uomini è qualcosa di inevitabile eppure “proibito”, una forza che cerca di uscire dal silenzio, ma che è anche destinata a restare fra le ombre. Lui non si aspetta redenzione: l’amore omosessuale è il suo paradiso e il suo inferno, il luogo in cui si trova e si perde al tempo stesso, con la consapevolezza che è proprio questo desiderio oscuro a renderlo chi è.

E c’è ancora dell’altro. Genet non parla solo di sessualità e desiderio omoerotico come atti di ribellione o sfida: c’è un senso di sacralità deformata, un culto della vulnerabilità che diventa il vero filo conduttore di questi versi. L'omosessualità qui non è solo attrazione fisica o erotica: è il linguaggio di un’anima che cerca un significato più profondo nella propria fragilità e in quella dell’altro. È quasi una preghiera, rivolta al corpo dell’amato come a un dio personale, irraggiungibile ma costantemente evocato.

In questi versi, l’amore tra uomini è un viaggio che Genet compie verso le ombre, come un pellegrinaggio che vuole arrivare a un tipo di trascendenza. Ogni immagine – il “sorriso” del soldato, la “mano nell’erba”, il “cortile” con i cadaveri – sembra suggerire che il corpo e l’amore sono qualcosa che va oltre il desiderio carnale. L’amato diventa una reliquia vivente, un testimone di un’intimità che è troppo profonda per essere compresa e che solo nella morte o nella violenza trova la sua epifania.

È come se Genet vedesse l’omosessualità non solo come un modo di amare ma come un atto di trasformazione, un modo di trascendere le regole del mondo e di esplorare l’essenza stessa dell’essere umano. La sua visione dell’amore è tragica e, allo stesso tempo, eterna: sa che la società non accoglie questi amori, che li condanna, eppure proprio questa condanna conferisce loro una sorta di purezza e di verità. L’amore omosessuale diventa una forma di martirio, un modo per sfidare la mortalità e trovare un senso anche nella perdita e nella desolazione.

Il vero messaggio qui, forse, è che Genet non cerca redenzione o accettazione; la sua poesia è un inno alla verità personale, per quanto oscura e incomprensibile. Ama l’amato non perché sia perfetto, ma perché è spezzato, come lui. E in questo amore trova la bellezza e la divinità, una spiritualità tutta sua, che si nutre della vulnerabilità e della sofferenza. Genet non vuole che i suoi lettori capiscano o approvino: vuole che si arrendano a questa intensità, a questo amore che brucia e illumina come una fiamma sacra.

In questi versi, l’omosessualità è, in definitiva, una chiave per toccare un ideale di bellezza e di verità che il mondo respinge. E Genet celebra questa bellezza pericolosa e nascosta come il vero volto dell’amore.